Sono passati ormai dieci anni dal successo internazionale che accolse il precedente romanzo di Julia Otsuka, Venivamo tutte dal mare, appena ristampato in edizione tascabile da Bollati Boringhieri. Scritto in una audace e insolita prima persona plurale, quel titolo aveva come protagoniste le «spose in fotografia», ovvero le donne giapponesi che ai primi del Novecento attraversavano l’oceano per raggiungere gli Stati Uniti, destinate a matrimoni combinati con uomini che non avevano mai incontrato.

Ora, in Nuoto libero, appena pubblicato negli Stati Uniti e tradotto da Silvia Pareschi per Bollati Boringhieri (pp. 144 euro 16,00) Otsuka abbandona l’affresco storico e colloca il romanzo nel presente, in una comunità di nuotatori che frequenta una piscina pubblica sotterranea: fra loro nessuna differenza etnica risulta significativa, piuttosto li divide il loro appartenere alla corsia lenta, media o veloce: «Alcuni di noi vengono qui perché stanno male e devono curarsi. Soffriamo di problemi alla schiena, piedipiatti, sogni infranti, cuori spezzati, ansia, malinconia, anedonia, le solite afflizioni del mondo di superficie. Altri lavorano al college vicino e preferiscono fare la pausa pranzo qui sotto, nell’acqua, sottraendosi agli sguardi arcigni dei colleghi e dei monitor. Alcuni di noi vengono qui per sfuggire anche solo per un’ora a un matrimonio deludente nel mondo di superficie. Molti di noi sono semplicemente residenti del quartiere che amano nuotare». La comparsa di una crepa sul fondo della vasca incrinerà l’iniziale serenità dei nuotatori, mettendo in crisi la quotidianità accogliente della piscina. In seguito la prospettiva si restringe mettendo in rilievo la figura, ormai solitaria, di una delle nuotatrici più assidue, Alice, pensionata alle prese con un rapido peggioramento cognitivo.

Se l’ambientazione di Nuoto libero è una novità, lo stile di Otsuka è invece immediatamente riconoscibile, soprattutto nel suo orchestrare la torsione dei punti di vista. Mentre nei capitoli ambientati in piscina Otsuka dà voce al coro dei nuotatori, altrove la voce narrante plurale passa all’amministrazione del Bellavista, una residenza a lungo termine per i disturbi della memoria. Qui, la vitalità posticcia del gergo aziendale risuona tragicamente beffarda mentre comunica ad Alice ritmi e regole della sua nuova vita. 

La scrittura di Otsuka procede accumulando dettagli visivi in modo ipnotico e coinvolgente. Non segue un tragitto lineare indirizzato verso il climax, piuttosto si riverbera in cerchi sempre più ampi grazie a uno stile pacato e potente al tempo stesso, restituito con grande efficacia dalla traduzione di Silvia Pareschi.

Quando la narrazione plurale viene abbandonata, le si sostituisce una voce anonima che si rivolge alla figlia quasi cinquantenne di Alice, i cui dettagli di vita coincidono con quelli di Julia Otsuka – i successi letterari, gli adattamenti dei romanzi – mentre la distanza narrativa introdotta dall’impiego della seconda persona singolare permette di controllare l’emozione: «La trovi tranquillamente seduta nella Zona Giorno, davanti alla finestra che dà sulla strada, a guardare i bambini che tornano a casa da scuola. Ha le unghie pulite. I capelli appiattiti sulla testa. Sembra calma, forse sedata».

Nell’incontro tra la figlia e la madre si succedono gli addii e quei ritrovamenti sempre più fugaci che il deteriorarsi della memoria di Alice concede. E l’indagine medica sul funzionamento della coscienza accompagna le ultime pagine, lasciando accostare il lavoro di Otsuka al filone ormai consolidato del neuro-romanzo, rivisitato in modo quasi paradossale: nello smarrimento identitario che le porta in dote la demenza, Alice si troverà infatti a riesaminare tutta la complessa eredità simbolica della comunità nippo-americana del secolo scorso.