Inesausto conversatore, pettegolo, curioso, deliziosamente mondano, Harold Bloom ha avuto in Joshua Cohen, di cinquant’anni più giovane, un uditore affascinato. A interessare lo scrittore americano, più che la memoria, sono le memorie. Finché un giorno capita che in quella voce narrante così limpida e sonora, nonostante l’età che sfiora i novanta, lo scrittore giovane riconosca il germe del proprio futuro romanzo: I Netanyahu Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre, che ha vinto il  Pulitzer 2022, esce ora da Codice (traduzione di Claudia Durastanti, pp. 272 euro 20,00). Il libro è dedicato alla memoria del grande biblista e critico letterario, la cui prodigiosa «memoria canonica» a Yale è ancora una leggenda: citava i suoi autori a memoria, aboliva note e apparati, liberava la parola critica dai ceppi del «virgolettato», sia nello scritto sia nel parlato. Una chiacchierata bastava a garantire all’ascoltatore l’autenticità di quella fonte che lo sbalzava di colpo sul palcoscenico della letteratura, dove ogni autore era anche un attore e lui, Bloom, il capocomico che distribuiva le parti: si trattasse di Shakespeare e della sua rivalità nei confronti di Marlowe, del dottor Johnson che era il più grande di tutti – «dopo di lui ci sono solo io» –; di Jacques Derrida, con cui una volta ha fatto il bagno nudo; di Gershom Scholem, che parlava di se stesso in terza persona, «come il nostro attuale presidente Donald Trump».

Come in una partita di bridge, l’incipit del romanzo squaderna lo schema di gioco: «Il mio nome è Ruben Blum e sono uno storico. Anche se credo che presto sarò storico e basta. Con questo voglio dire che quando morirò diventerò storia io stesso». Davvero si possono stringere in un unico nodo “storia” e corpo dello storico? C’è, in questa sicurezza di Ruben, la sua piena adesione al motto di Vladimir Žabotinskij posto in esergo, «Eliminate la diaspora, o la diaspora eliminerà voi»? Se il monito del «vecchio pazzo di Odessa», che aveva girato per il mondo avvisando gli ebrei dell’imminente «cataclisma genocida», potesse trovare un’applicazione così radicale, non vi sarebbe dispersione ma vicinanza. Il senso della storia sarebbe nel ritorno. 

O forse dovremmo sentire, nel destino post mortem del corpo dello storico ipotizzato da Blum, la burla dotta, la copertura trasparente i un pensiero non esplicitabile quale sarebbe, per uno storico, la domanda radicale: che cosa è «storia»? Il racconto segue qui entrambi i percorsi.

Da bambino, Ruben aveva imparato a destreggiarsi fra due qualità di storia: quella aperta, «tutta dedicata al progresso», della scuola «normale», ovverosia americana, secondo la cui visione «il passato era solo il processo attraverso il quale il presente veniva conseguito»; e quella «chiusa» della scuola ebraica, che non conteneva passato, presente, futuro: non era propriamente storia ma Tempo, rotondo e perfetto come la Terra il giorno della Creazione. Una volta fattosi adulto, l’immaginaria oblazione del proprio corpo alla materia insegnata lungo «mezzo secolo di professorato», è l’omaggio di Ruben alla doxa, che vuole l’antico conflitto tra Storia e Tempo sanato dal passaggio attraverso le scienze della natura. «Gli avvocati muoiono e non diventano legge, i dottori muoiono e non diventano medicina, mentre i docenti di biologia e chimica si decompongono in biologia e chimica, si mineralizzano in geologia. Lo stesso processo vale per gli storici: stando alla mia esperienza siamo gli unici nell’ambito delle materie umanistiche a diventare quello che studiamo; ci sfilacciamo insieme ai nostri materiali finché le nostre vite non si sedimentano nel passato, per diventare la sostanza stessa del tempo».

Ma a frenare l’escalation, puntuale sopravviene il dubbio: «O forse è solo l’ebreo in me che sta parlando…». Forse è la parola «passato» a far suonare il campanello d’allarme. Ruben Blum  sa che esistono due tipi di passato: quello americano e «servibile» che secondo «l’eccellente critico Van Wyck Brooks qualsiasi intellettuale americano “moderno”, dissociato e sradicato, deve creare per se stesso», e quello «inservibile», perché ebraico e iscritto in quella storia chiusa, circolare, dalla quale lui cinquant’anni fa è scappato per rifugiarsi «nell’accademia pagana e tra le colline e le valli delle pacifiche foreste sub-niagariane». Solo ora si accorge che l’adesione al passato americano rischia di bloccargli l’accesso alla «sostanza del tempo». Da qui l’improbabile escamotage della transustanziazione del corpo dello storico in storia.

Nato nel 1922 da genitori ebrei immigrati da Kiev, il personaggio di Ruvn Yudl Blum (questo il nome vero), pluripremiato professore emerito e già docente di Storia della tassazione e delle politiche fiscali presso una «Corbin University» che è trasparente maschera della più affermata Cornell, si è elevato alla classe media grazie a un diploma di contabile. Il giorno dopo l’attacco di Pearl Harbor ha sposato la fidanzatina del liceo e, in quanto ragioniere dell’esercito, ha potuto superare la guerra senza lasciare il paese. A guerra finita si è iscritto al City College di New York, uscendone con una laurea in storia. Segue l’innato intuito per i numeri e si imbatte, «maldestro Colombo», nella storia e geografia delle politiche fiscali: materia che sta lì da sempre, ma nessuno se n’era mai accorto. Una vita, la sua, che Joshua Cohen, nei credit finali, non esita a giudicare «prosaica».

Al Corbin College Blum è arrivato fresco di laurea verso la fine degli anni Cinquanta: «ex ragazzino del Bronx», ultimo assunto del dipartimento di storia e unico ebreo presente in quella università, all’epoca dei fatti narrati è all’inizio del secondo dei due anni di prova prima della sospirata tenure. E proprio a lui il direttore del dipartimento ha affidato il compito di accogliere Ben Zion Netanyahu, noto per i suoi studi sull’ebraesimo iberico medievale e l’attivismo politico negli anni di formazione dello Stato di Israele. Espulso da Gerusalemme, e dopo vari vagabondaggi, Netanyahu  si è stabilito a Philadelphia, e ora vorrebbe ottenere una cattedra di storia presso il Corbin College. A Ruben l’arduo compito di produrre una prima valutazione comparativa dei suoi meriti e curare l’organizzazione della presentazione del candidato alla facoltà. Se ne possono immaginare le «ansie da ebreo».

«Ero l’incarnazione rigonfia, ipertensiva ma soprattutto apprensiva e alimentata ad angoscia del maschio ebreo che si automortifica, scoordinato e iperintellettuale, quello che uno come Woody Allen, per esempio, e tanti autori letterari ebreo-americani hanno preso in giro fino a trovare un inconsueto successo economico e sessuale (Roth nella generazione successiva alla mia, Bellow e Malamud in quella precedente)». Il Blum di oggi ridimensiona quelle ansie, pur percependone la fatticità. L’episodio che sta per raccontare contiene avvisaglie di stili di comportamento e di pensiero che esploderanno nel decennio successivo e oltre. «Nessuno, leggendo queste parole, nel terzo millennio della cristianità, può avere un’idea – nessunissima idea – di cosa significava per un bambino degli anni Sessanta imbattersi non solo in una TV, ma in una TV a colori. Innanzitutto, nel 1960 possedere un televisore non era anti-intellettuale (…)».

I Nethanyahu non è, come qualcuno ha detto, «a Jewish Sopranos», ovvero la soap opera romanzata di una Jewishness da cartolina; è un romanzo storico dei nostri tempi, che incardina la banalità di un individuo nella storia del mondo.

Per quanto l’episodio raccontato sia «irrilevante e in fondo trascurabile», la prospettiva dalla quale viene guardato è globale. Giocata a contrasto con la realtà storica dell’illustre famiglia dei Netanyahu, proprio quell’irrilevanza si fa cifra del racconto, e non è un caso se sarà la pochade inscenata dall’installarsi del capofamiglia, con la moglie e i tre figli al seguito – uno dei quali il Benjamin Netanyahu futuro Presidente dello Stato di Israele – a far esplodere il senso del racconto. Patetica banda di straccioni indifferenti alla tempesta di neve che espone la loro pelle illividita dal freddo, questa truppa di simpatici vandalizzatori della casa perfettina dove il giovane Blum vive con l’autoritaria moglie e la figlia adolescente pronta a farsi spaccare il naso da una porta pur di ottenere la sospirata rinoplastica, ha la storia dalla sua parte.

È vero: alla fine degli anni Cinquanta l’America già non aveva più «un ruolo così cruciale». Forse non era più «l’unico Paese al mondo in cui tutti gli affari esteri erano principalmente domestici; in cui – a causa di una demografia fatta di immigrati e del sistema democratico – l’estero non esisteva». Ma con quell’America bisognava pur fare i conti, e il resto non era storia ma tempo.