«Guardo all’architettura senza ’autori’, quella popolare o vernacolare, che sembra imporre la sua forma singolare come qualcosa di logico e inconfutabile». Jordi Colomer, nato a Barcellona nel 1962, artista, architetto e storico, è alla sua prima retrospettiva italiana con Strade, la mostra promossa dalla Fondazione Modena arti visive, a cura di Daniele De Luigi, in corso presso la Palazzina dei Giardini a Modena (fino all’8 maggio). Nell’itinerario, si susseguono opere realizzate negli ultimi venti anni, in un serrato dialogo con l’azione collettiva pensata per la città.

Per formazione, lei ha uno sguardo da architetto, che è perfettamente intrecciato con la sua attività artistica…
L’«architettura» non ci deve apparire come un’estranea. Tutti portiamo dentro di noi «una spinta architettonica» nel concepire gli spazi in cui vivere e nei quali incontrarci. L’architettura è qualcosa di più che costruire un tetto: è offrire un significato a quel tetto. E, in fondo, è anche il modo in cui la abitiamo. Nella mostra Strade è esposta una serie di fotografie del cimitero «Pozo Almonte», una piccola cittadina in mezzo al deserto di Atacama, in cui ogni famiglia ha creato una tipologia diversa per le proprie tombe. L’architettura costruisce il luogo e la sua storia, che poi è quella dei suoi abitanti.
In questo senso, il progetto Corteo modenese e Strade hanno come punto di partenza il camposanto di Modena, un progetto di Aldo Rossi, un luogo mitico che conoscevo fin dai tempi in cui ero uno studente. La copertina dell’edizione spagnola del libro di Rossi L’architettura della città era proprio dedicata a quel cimitero di San Cataldo.

Appena arrivato, ho chiesto al curatore (era febbraio 2020, prima dell’inizio della pandemia) di andarci. Poco dopo siamo stati investiti dalla pandemia e lavorare intorno al cimitero di Rossi mi è sembrata un’idea che si imponeva. È concepito come «una città dei morti», è incompiuto e la maggioranza dei modenesi assicura di odiarlo. Qualcuno me ne ha parlato come un modello di «comunismo metafisico». Perché tutte le tombe sono uguali, suppongo. L’architettura ci racconta sempre della vita e degli immaginari, delle persone e delle società…

Nella «processione» di Modena ha voluto che la cittadinanza riconquistasse lo spazio negato dalla pandemia, ma con la «morte addosso». L’emergenza sanitaria ci ha lasciato solo questo senso di fine con cui fare i conti o possiamo sperare in qualcos’altro?
Abbiamo vissuto alcuni anni in cui la morte ha preso le strade, letteralmente, e ci siamo dovuti rinchiudere in casa per proteggerci. Era addirittura vietato recarsi al cimitero per seppellire i defunti. Abbiamo sentito parlare insistentemente di morte, ma solo in termini statistici. La nostra cultura sembra aver perso la capacità di celebrarne i riti. Non sappiamo come condividere questo momento di vita in comunità, come affrontarlo per immagini, musica o gesti. Le cerimonie funebri contemporanee sono dominate da una funzionalità standardizzata, tendono a essere un breve iter burocratico in cui la morte resta in un «punto cieco», invisibile.

Il Corteo modenese, promosso da Fmav e Collettivo Amigdala ( curato da De Luigi con Federica Rocchi), proponeva un giro «inverso»: ci si incontrava al cimitero per dirigersi verso il centro della città come comunità, apparendo in festa, mangiando, ballando, ascoltando e producendo musica, travestendosi, portando stendardi. C’era un folto gruppo di scheletri ballerini che riprendevano la tradizione delle «danze macabre» e guidavano il gruppo. Qualcuno mi ha confessato di aver provato un grande piacere nel poter essere mascherato in quel modo condividendolo con altri. Si trattava di recuperare la strada come spazio di espressione, ma anche di superare i tabù. Il percorso di preparazione è stato entusiasmante, con la partecipazione del collettivo Amigdala, dei bambini della scuola primaria Cittadella, degli studenti dell’Istituto superiore Adolfo Venturi e dell’Istituto superiore di studi musicali Vecchi Tonelli, con workshop presso la Scuola di alta formazione Fmav, le attività di «Museolaboratorio Quale Percussione?», del Coro Le Chemin des Femmes e di Cantiere Aperto.

Il «corteo» ha rappresentato una catarsi e anche una affermazione della comunità, la necessità di reinventare le proprie celebrazioni, prendendo coscienza della vita. Il mio desiderio segreto? Che ogni anno si possa organizzare un Corteo modenese/ Modena Parade per le strade della città.

Spesso sceglie la performance come modalità di espressione, che naturalmente fa interagire il pubblico ma è anche effimera…Cosa ci può dire al riguardo?
La forza di un atto effimero è l’intensità, il qui e ora, il valore di ciò che è irripetibile, il momento di caos in cui tutto può accadere, anzi sta accadendo. Di solito, registro quei momenti in video. Ma poi diventano un’altra cosa, un format cinematografico con una propria autonomia. Ho anche parlato qualche volta degli elementi scenografici che sono parte di questi eventi; quando vengono presentati in seguito – in una mostra, per esempio – si riferiscono a ciò che è successo, sono come gli oggetti della tribù che ha reso possibile il rito collettivo. Chi c’era, sa di cosa parlo. Per gli altri, servono ad accendere l’immaginazione.

Per lei, le città sono luoghi mobili, da attraversare per vivere. Il nomadismo rappresenta forse la possibilità per un’esistenza armonica con ciò che ci circonda? Eppure un film come «Nomadland» ci ha detto quasi il contrario…
Le città sono essenzialmente uno spazio in continua trasformazione, definite da trasformazioni e accadimenti. La città è ciò che costruisce chi la abita, è «interpretata» dalle sue storie passate e da quelle che si immaginano, che avvengono ogni giorno o si raccontano, si fantasticano. La città si «legge», attraverso le sue architetture e i gesti di chi la vive. Cambia senza mutare luogo, ma si muove. La pratica del nomadismo, però, è un’altra questione. È avere il coraggio di lasciare la sicurezza di «casa» e affrontare il movimento costante, vivendo sulla strada. Dalla nostra sicurezza «sedentaria», dalle nostre dimore pseudo-borghesi, possiamo immaginare una vita «nomade»? Vediamo tanti sfollati forzati, spinti fuori, in Ucraina così come in Siria, milioni di persone che lasciano le loro case minacciate dalle bombe.

Il progetto ¡Únete! Join Us! che ho presentato al padiglione spagnolo della Biennale di Venezia nel 2017 presentava un gruppo di individui che avevano deciso di vivere in perenne movimento, inventando le proprie modalità di condivisione. Il nomadismo è un altro tabù nella nostra società. Come stile di vita è qualcosa che ci spaventa.

Esiste una strada percorribile per creare una relazione fra natura e urbanizzazione? Nella sua opinione, c’è un modello non solo utopico, una prospettiva insolita da tenere presente?
Ho avuto la fortuna di conoscere Yona Friedman, l’architetto delle «utopie realizzabili» e ho realizzato un lavoro su «X-Ville» basato su alcuni dei suoi disegni degli anni ’60, i Manuels, in particolare quello intitolato «Dove inizia la città?». Friedman parla delle persone che partono dalla campagna per andare in città (pensiamo a tanti luoghi in Africa, Asia, America), stabilendosi spesso sui loro confini. Mostra quanto possiamo imparare dalle loro pratiche.

Portano i loro animali e lavorano appezzamenti di terra ancora in via di sviluppo. Le utopie di Friedman non mirano a costruire nuovi modelli lontani dalla realtà, ma a trasformare ciò che già esiste. Una grande città che incorpora la propria produzione agricola e convive con gli animali, adattando i suoi spazi… Il tempo sembra dargli ragione. Oggi la produzione di cibo locale sembra più che ragionevole. Abbiamo assistito alla crescita di «orti urbani», anche acquisire una nuova prospettiva sul rapporto tra l’umanità e il resto dei viventi pare inevitabile. La grande città sarà quella che riuscirà a produrre proprie risorse e a convivere con altre specie…Perché non immaginare mucche, galline e volpi come abitanti? Frutteti, boschi e laghi tra i grattacieli?

Oltre a tetti, periferie, luoghi disparati del nostro vivere sociale, ha lavorato molto intorno al deserto. Cosa significa quel paesaggio e quali potenzialità – anche concettuali – rilancia?
Il deserto sarebbe il controcampo della città. I gesti sembrano molto chiari e qualsiasi costruzione appare ben disegnata. Le parole risuonano perfettamente. Le risorse sono limitate. Il deserto pone radicalmente tutta la questione dell’abitare. Dunque: come vogliamo vivere?