Nella diligenza di Ombre rosse, che viaggia da Tonto a Lordsburg attraversando il territorio degli indiani, i fordiani doc hanno l’impressione, dopo averlo visto e rivisto infinite volte, di essersi guadagnati un posto accanto al fuorilegge Ringo Kid (John Wayne), a Mrs. Lucy Mallory (Louise Platt), che incinta va a raggiungere il marito, a Josiah Boone (Thomas Mitchell), il medico alcolizzato, Dallas (Claire Trevor), la prostituta cacciata dalla città, Henry Gatewood (Berton Churchill), il banchiere disonesto, lo sceriffo Curley Wilcox (George Bancroft), Hatfield (John Carradine), il giocatore professionista del Sud, Samuel Peacock (Donald Meek), il timido rappresentante di liquori. Una galleria di personaggi indimenticabili, a cui corrispondono attori straordinari, tra cui i più noti sono all’epoca Claire Trevor, John Carradine e Thomas Mitchell, che conquista l’Oscar come miglior attore non protagonista.

La scommessa del bellissimo Il mondo secondo John Ford di Alberto Crespi (Jimenez, pp. 270, euro 20,00) non è tanto quella di riproporre i momenti più clamorosi del prodigioso viaggio, ma di fare dei protagonisti di Ombre rosse un modo particolarmente suggestivo per immergersi nell’intera filmografia del grande regista e, attraverso tutta una serie di acrobatici rimandi, raccontare i tratti essenziali dell’antropologia fordiana, dall’uomo alla donna, dall’Irlanda alla politica, dalla legge all’esercito, dal Sud all’alcool, senza trascurare gli indiani e addirittura Geronimo. Singolare universo di storie, di sentimenti, di figure di epico risalto, il cinema di John Ford – che nell’arco di un cinquantennio si è venuto imponendo nella memoria di intere generazioni di spettatori come l’immagine stessa del cinema – si rivela sempre di più come una grande rievocazione dell’America, della sua storia e dei suoi miti ed insieme come una profonda riflessione sul destino dell’uomo.

Nessuno sembra incarnare meglio di John Wayne l’uomo fordiano, che apparirà a più riprese nella filmografia del regista fino alla «trilogia della guerra», da Il massacro di Fort Apache a I cavalieri del Nord Ovest e a Rio Bravo, in cui l’aspetto avventuroso si mescola a quello pensoso e triste, legato all’età che avanza, e al senso di una vita spesa nella fedeltà al dovere. Ethan di Sentieri selvaggi, uno dei suoi personaggi più clamorosi, non è l’eroe fordiano tipico, ma è un uomo violento, diviso tra un amore assoluto per la famiglia e un odio sfrenato per chi quella famiglia ha distrutto. Come dimenticare il momento in cui il razzista spietato, pronto a uccidere la nipote perché ormai non è più una donna bianca, solleva la ragazza e le dice con dolcezza: «Andiamo a casa, Debbie»? Se John Wayne è il «lonely man», solo e malinconico, Henry Fonda, l’altra grande rappresentazione dell’uomo fordiano, è l’eroe della comunità e delle istituzioni. In Alba di gloria è uno straordinario giovane Lincoln; in Sfida infernale è Wyatt Earp, lo sceriffo di Tombstone alle prese con i Clanton; in Furore è Tom Joad, l’eroe in fuga dopo l’abbandono delle fattorie. Il terzo divo è James Stewart, che collabora con Ford solo nell’ultima parte della carriera. In L’uomo che uccise Liberty Valance, amara riflessione sul mito del West, è Ramson Stoddard, il senatore che torna a Shinbone, nell’Ovest, per il funerale di Tom Doniphon (John Wayne).

Il personaggio femminile più forte e sentito del cinema di Ford è la dottoressa Cartwright (Anne Bancroft) in Missione in Manciuria, che entra in scena in groppa a un asino. Sul set del film ogni tanto il regista la chiamava «Duke», come John Wayne, e lei stessa cercava di recitare come lui, riuscendoci magnificamente. Famoso per essere l’autore di un cinema «maschile», il regista si è misurato in più occasioni con personaggi femminili, affidando loro momenti importanti dei film. Il più significativo è forse il monologo finale di Ma Joad (Jane Darwell) di Furore. Singolare mater familias che guida i suoi nelle traversie della Depressione, dice a suo marito che si sente un buono a nulla: «Be’, pa, una donna riesce a cambiare meglio di un uomo. Un uomo vive, diciamo a strappi, una cosa dopo l’altra. Un bambino nasce, qualcuno muore, è uno strappo. Ti fai una fattoria, la perdi: un altro strappo. Con una donna è tutto un flusso, come una corrente, ci sono le cascate, ma il fiume, lui va sempre avanti. La donna guarda la vita così. È quello che ci rende forti. I ricchi vengono, e muoiono. I loro figli non valgono nulla e muoiono. E noi continuiamo ad arrivare. Noi siamo la gente che viene. Non ci possono spazzare via, non ci possono sconfiggere. Andremo sempre avanti, perché siamo il popolo».

Il film più irlandese del maestro è Un uomo tranquillo, anche se Innisfree, il paesino in cui è ambientato, non esiste. L’Irlanda nel suo cinema è una favola, o meglio, un’utopia, il mondo come vorremmo che fosse. Nato negli Stati Uniti, ci andò nel 1921, restandovi quattro giorni, dal 3 al 7 dicembre. Aveva ventisette anni e per la prima volta si incontrava con la terra da cui la sua famiglia era emigrata in America. Cosa è successo veramente in quei giorni irlandesi? Il momento in cui arrivò era una tregua in cui a Londra erano in corso le trattative per assicurare all’Irlanda lo stato di dominio.

Secondo alcune fonti, John, seguendo l’esempio del padre che era un finanziatore dell’Ira, avrebbe portato con sé del danaro da consegnare ai suoi compagni ribelli. Favola, utopia, realtà? Fin da Ombre rosse la politica è tutt’altro che estranea al cinema di Ford. Basterebbe pensare al losco banchiere Henry Gatewood e al suo provocatorio intervento: «Paghiamo le tasse, e cosa abbiamo in cambio? Nessuna protezione dall’esercito. Invece di proteggere gli uomini d’affari, il governo ficca il naso negli affari. Ora vogliono persino controllare le banche, come se noi banchieri non sapessimo fare il nostro lavoro! Io ho uno slogan che dovrebbe essere stampato su ogni giornale del paese: l’America agli americani! Il governo non deve interferire negli affari. Deve ridurre le tasse. Il nostro debito nazionale è assurdo. Più di un miliardo di dollari all’anno. Quello di cui il paese ha bisogno è un uomo d’affari come presidente». Donald Trump?
L’esercito ha un ruolo fondamentale nel cinema del regista, soprattutto nel dopoguerra. La sua stessa partecipazione alle operazioni militari, prima sul campo e poi nell’Office of Strategic Service, ha contribuito ad arricchire l’aspetto emotivo della rappresentazione. Se nei western della cavalleria lo scontento degli ufficiali nasce dall’identificazione del regista con gli uomini che combatterono e morirono a Pearl Harbour e a Midway, in generale le ambientazioni militari suggeriscono lo scenario delle ideologie e delle strutture sociali della società americana.

Fra gli altri temi approfonditi nel corso del volume, il mondo del Sud idealizzato dal regista è uno dei più interessanti, dove si riflette l’ambiguità di fondo della storia americana, il rapporto fra gli antichi valori e le onorevoli sconfitte. Ford non è un reazionario come ancora qualcuno sostiene, ma piuttosto un conservatore disposto a esaltare la memoria dei valori di ieri anche a costo di trasformarli in leggenda. Ancor più complesso il rapporto con gli indiani, perché qui Ford fa i conti con tutti i problemi identitari che la conquista della frontiera e il genocidio di un popolo hanno portato con sé.

Il finale spetta alla Monument Valley, al confine tra Utah e Arizona, all’interno della riserva dalla nazione Navajo. Se compare solo in sette titoli del grande regista prima di diventare un’icona del western mondiale, è sulla sua apparizione che si fonda il mito di uno scenario destinato a siglare per sempre la poesia del mondo di John Ford.