Joë Bousquet, perdersi per ritrovarsi lungo sentieri introspettivi
Scrittori francesi Composti tra il 1947 e il 1949 dall’«eremita» di Carcassonne, i testi di «Semina sentieri», tradotti da Panozzo editore, si distinguono per il lessico icastico, senza orpelli
Scrittori francesi Composti tra il 1947 e il 1949 dall’«eremita» di Carcassonne, i testi di «Semina sentieri», tradotti da Panozzo editore, si distinguono per il lessico icastico, senza orpelli
«Ogni creazione autentica si propone al compimento». Questo pensiero di Joë Bousquet è tratto dalla raccolta Semina sentieri (pp. 180, € 15,00), pubblicata da Panozzo Editore con testo originale a fronte. La cura è affidata ad Adriano Marchetti, maggiore specialista italiano dell’autore relegato nell’immobilità del suo eremitaggio a Carcassonne. Alla meritoria opera di questo raffinato francesista dobbiamo versioni di libri campali come Tradotto dal silenzio, La conoscenza della sera, Il quaderno nero, la Corrispondenza con Simone Weil, oltre al Breviario blu, recentemente apparso per i tipi di Joker. Bousquet era rimasto paralizzato in seguito a una ferita rimediata il 27 maggio 1918 a Vailly durante un contrattacco predisposto per liberare un battaglione accerchiato dal nemico. Da allora si era dedicato, anima e corpo, all’attività creativa, riempiendo con la sua grafia elegante e ordinata innumerevoli quaderni, in cui contrappose il fiele del Cahier noir al miele stillante dal Livre heureux. «Ho vissuto nel fuoco» scrisse emblematicamente all’amica Germaine Helen Mühlethaler, soprannominata Poisson d’Or.
Piagato come Anfortas nella leggenda del Graal secondo la metafora di Simone Weil, Bousquet trascorrerà il resto dei giorni immobile a letto, nella penombra della sua camera azzurra, attorniato dai dipinti degli amici (Max Ernst, Magritte, Mirò, Tanguy, Klee, Bellmer, Fautrier), da cui prenderà spunto per l’elaborazione delle sue intense prose. A volte saranno i pittori stessi a ispirarsi ai suoi testi, com’è avvenuto per Les Alentours de Saint-Souris, olio del 1949 di Jean Dubuffet, basato sulle reminiscenze infantili di Bousquet riguardanti il nome immaginario di un villaggio marino (si veda Il gioco della vita. Lettere a Jean Dubuffet 1945-1949, curato un paio d’anni fa dallo stesso Marchetti per Mimesis).
Bousquet alterna il ricorso a massicce dosi d’oppio e morfina alla stesura di tali cahiers, ricevendo la visita di amici devoti, tra cui Aragon, Éluard, Gide, Valéry. «Rifugge la luce perché gli somiglia», si legge in uno di questi testi, presentati per la prima volta in italiano, dove si avvicendano poesia e prosa, spaziando indifferentemente dall’annotazione diaristica all’aforisma, dallo spunto visionario ai refrains di taglio infantile. La continua alternanza di temi e registri risulta essere la principale cifra espressiva di Bousquet, assecondando la vocazione a un linguaggio polisemico, per lo più incentrato sull’accostamento di svariati elementi naturali. Nonostante qualche analogia con l’écriture automatique di derivazione surrealista in cui eccelsero figure eccentriche come Desnos e Crevel, tale adesione introspettiva si rapporta piuttosto a quella linea «ereticale» rappresentata da Daumal e Gilbert-Lecomte, riconducibile alla rivista «Le Grand Jeu». A prescindere da certi innegabili esiti criptici, l’intento programmatico serpeggia sempre nella poetica di Bousquet, basata su un’autenticità che rasenta la quête mistica: «L’uomo è il Dio assente dall’uomo…». Non bisogna tuttavia dimenticare la sottoscrizione del Secondo manifesto surrealista, elaborato dal «papa» Breton nel 1930.
Un retaggio eteroclito dunque, avallato dal paradossale contrasto tra la condizione precaria dell’autore, crocifisso a letto, folgorato come un calco pompeiano nel deserto di giorni sempre eguali, e la dinamica sottesa a una mole imponente di scritti (soltanto l’Œuvre romanesque complète comprende quattro ponderosi volumi editi tra il 1979 e il 1982 da Albin Michel). Non a caso Bousquet precisava all’amico Jean Paulhan: «Ho creduto che l’accettazione della mia sorte dovesse prendere la forma di un libro». In tale contesto Le Sème-chemins, uscito postumo nel ’68 presso le Éditions Rougerie, costituisce il tentativo di elaborare «un linguaggio senza metafore», concentrandosi su una parola di taglio icastico («La poesia fa sì che il vedere non si distingua dal concepire») ma, al tempo stesso, priva di orpelli e infingimenti. Composti tra il ’47 e il ’49, questi componimenti, nella «discontinuità del loro costrutto, riverberano particolari iridescenze», come sottolinea il curatore, elaborando una sorta di regesto in cui convergono tematiche apparentemente discordanti: dall’aspetto contemplativo all’impulso erotico, passando attraverso inevitabili suggestioni figurative (cfr. al riguardo La chambre de Joë Bousquet di Pierre Cabanne, edito nel 2005 da André Dimanche, catalogo ragionato in cui si ricostruiscono le vicissitudini collezionistiche del poeta).
La parola di Bousquet, autodefinitosi «mistico allo stato selvaggio», costeggia il senso al fine di divenire allusiva, edificando un ponte tra dicibile e indicibile. È una poesia tesa, contesa alla dimensione del frammento, misura tipicamente novecentesca, che sfida l’abisso modulando «il male nel sangue» mediante il ghirigoro di variegate taches d’encre. Si innerva così sulla pagina una sequenza di vocaboli concepita come «soddisfazione di un bisogno elementare», pericolante alla stregua dei castelli filiformi di Klee. Il corpo diventa «campo magnetico», «strumento sovversivo di conoscenza» (il richiamo è alle pressoché coeve Notes d’Inconnaissance, titolo ripreso dalla Nube della non conoscenza, testo mistico di un anonimo inglese del XIV secolo, leggibile con la curatela di Piero Boitani per Adelphi), inducendo paradossalmente la blessure ad acquisire valore salvifico, momento di redenzione orientato a «Mangiare la morte».
All’«orrore di svegliarmi senza il corpo» subentra il movimento immaginario dell’«ape del tuo corpo». Il bonheur si accompagna alla «rinuncia totale all’atto letterario», diagnosticata nel succitato Breviario blu, virando verso un’affabulazione tesa a descrivere non più l’«organo dei dispiaceri», «la macina dei tormenti», ma ogni «gemmazione libera di primavera». Gli spunti scaturiti da una sorgività di stampo primigenio si coniugano a un’oscurità sempre incombente, delineando l’inventario della stessa magmatica esistenza. In una lettera del 1942 indirizzata a Jean Ballard, direttore dei «Cahiers du Sud», si legge: «Tutto sarà a poco a poco pubblicato e questi libri saranno la mia vita, nella sua evoluzione».
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