Mentre lunedì notte Mohammed Sabaaneh raccontava in diretta streaming su TikTok l’incursione in corso dell’esercito israeliano a Jenin, con il crepitio di spari di armi automatiche in sottofondo, ad ascoltarlo c’erano migliaia di persone di varie nazionalità. Sabaaneh, 29 anni, non era un giornalista. In strada era sceso solo con l’intento di riferire a più persone ciò avveniva in quel momento nella sua città dove i militari israeliani erano entrati per demolire la casa di Raad Hazem, autore lo scorso aprile di un attacco armato nel centro di Tel Aviv e dell’uccisione di tre israeliani.

A un certo punto il giovane palestinese è crollato sull’asfalto.

Chi era collegato non ha visto più nulla ma ha potuto sentire voci e grida di aiuto. Uno di loro ha scritto nei commenti: «È stato ferito». Sabaaneh è stato colpito in pieno petto, forse da un tiratore scelto. È spirato prima di arrivare all’ospedale.

La sua morte ha ricordato quella della reporter di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa a Jenin l’11 maggio scorso da un colpo sparato «con ogni probabilità» da un soldato, come ha riconosciuto due giorni fa lo stesso esercito israeliano.

La morte di Sabaaneh non riceverà la stessa attenzione mediatica di quella di Abu Akleh, che era una giornalista molto nota e lavorava per una delle tv più conosciute nel mondo. Sarà aggiunta all’elenco degli 80 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno – non pochi dei quali civili, anche donne e adolescenti – dalle forze armate israeliane in Cisgiordania.

Nel comunicato diffuso dopo l’incursione a Jenin, le Forze armate israeliane, hanno scritto che i soldati sono stati accolti da un pesante fuoco di sbarramento e che hanno risposto sparando. Oltre alla morte di Sabaaneh, il ministero della salute palestinese ha riferito che altre 16 persone sono rimaste ferite. Ieri sui social per tutto il giorno sono girate le immagini di amici e parenti in lacrime che davano l’ultimo saluto al giovane ucciso.

Qualche ora prima del raid a Jenin il capo di stato maggiore israeliano uscente, Aviv Kochavi, aveva pesantemente criticato le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), causa, a suo dire, dell’aumento di «attacchi terroristici» in Cisgiordania perché prive di mezzi e della volontà di «combattere il terrorismo». Secondo Kochavi, l’Anp non rispetterebbe più l’impegno di cooperare nella sicurezza previsto dagli Accordi di Oslo, ossia di arrestare altri palestinesi, al punto da spingere lo Stato di Israele a fare da solo. Parole che hanno innescato la reazione del governatore di Jenin, Akram Rajoub.

In una intervista radiofonica Rajoub ha risposto che «la parte che indebolisce i meccanismi e danneggia l’Autorità palestinese è l’occupazione e l’esercito di cui è capo di Kochavi». Rajoub ha aggiunto che l’Anp «non combatterà le forze di resistenza all’occupazione» e che il suo compito «è garantire l’ordine pubblico e creare un’atmosfera che dia ai palestinesi un senso di sicurezza e questo influenzerà (positivamente) anche Israele». Parole che non sono state accolte bene dalla popolazione palestinese che chiede la fine di ogni collaborazione con Israele.

Intanto, travolto dalle polemiche e, pare, da pressioni statunitensi, il Cogat, il dipartimento dell’esercito israeliano per gli affari civili nei Territori occupati, avrebbe deciso di revocare la misura che obbligava i cittadini stranieri in Cisgiordania a comunicare alle autorità militari l’inizio di relazioni sentimentali con residenti palestinesi.