Jeff Wall, cine-pittura nelle scatole luminose
«Dead troops talk», (part), 1992, lightbox, cm. 229 x 417: visione da un’imboscata a una pattuglia dell’Armata rossa in Afghanistan, vicino Moqor, inverno 1986
Alias Domenica

Jeff Wall, cine-pittura nelle scatole luminose

Alla Beyeler di Basilea La mostra del fotografo canadese, da lui stesso allestita: i celeberrimi «lightbox» e per controcanto, spesso nel buio, le successive gigantografie in b/n
Pubblicato 8 mesi faEdizione del 17 marzo 2024

La grandiosa collezione della Fondazione Beyeler a Basilea ha in questi mesi messo in scena un dialogo illuminante tra fotografia e pittura. Al termine della completa retrospettiva dedicata (fino al 21 aprile) al fotografo canadese Jeff Wall, dove continue sono le sollecitazioni fornite dalla pittura, ci è anche data la possibilità di procedere in un percorso à rebours: da Richter, Warhol, Bacon fino alle sorgenti, Seurat e Degas, tutti artisti per i quali è stata invece fondamentale la fotografia nella loro pittura. Di sala in sala, attraversando la lunga appendice, le opere appaiono talmente persuasive che davanti ai fiori pop e a uno dei primi autoritratti di Andy Warhol – le solite tre dita tra bocca e mento, mentre si interroga perplesso sulla realtà (uomo o macchina?) – svapora persino tutta l’irritazione per il personaggio mito.

Dalla pittura alla fotografia, dalla fotografia alla pittura, in un gioco di positivi e negativi. È questo uno dei temi cardine sui quali è stata costruita la retrospettiva di cinquanta opere dall’artista in persona: è solo la seconda dedicata a un fotografo dall’ormai lontana creazione della Fondazione di Riehen. Non possono infatti sfuggire, oltre all’evidente debito verso il cinema, i continui richiami alla tradizione della pittura: a Velázquez, ai Fiamminghi e agli Olandesi dell’epoca d’oro, a Manet, Seurat, Matisse, Hopper. E per chiarire l’importanza della pittura nell’opera di Wall, basti riandare all’inizio di tutto, a The destroyed room, il primo in ordine di tempo dei suoi celeberrimi lightbox (1978), per il quale non è difficile ritrovare la matrice nella La Mort ort de Sardanapale di Eugène Delacroix.

D’altronde è l’artista stesso a preferire il termine tableau a fotografia per definire le sue opere. Palese il richiamo a Dürer nell’enigmatico The Thinker o quello a Hokusai in A sudden gust of wind, ma la sua fascinazione per stoffe e altro con vivacissimi motivi decorativi, per i punti di fuga creati da porte appena socchiuse, per le vedute a perdita d’occhio con il profilo della città (la sua Vancouver) e la natura circostante, per la spensierata vanità della donna che giocherella con una collana, o per lo sguardo rapito dai cerchietti di madreperla di una bambina, accerta l’ampio retroterra delle conoscenze storico-artistiche di Jeff Wall.

Jeff Wall

I riferimenti alla Grande Jatte di Seurat e a Le bonheur de vivre di Matisse sono sottolineati dalla presenza di un’opera come Recovery, enorme fregio trasformato totalmente in una pittura dai colori felici, salvo in un punto, minuscolo, dal quale un ragazzo dal volto stralunato – foto in bianco e nero – pare sbirciarsi attorno. Che cosa vuol dirci Wall? Pensate a quel ragazzo, così si spiega, seduto in un parco come a un individuo colto da un improvviso stato di allucinazione, di delirio, che sta osservando per pochi attimi un mondo perfetto, sereno, in totale armonia.

Il lightbox (scatola luminosa) è stato il momento di svolta nel percorso di Wall, e, considerata la data precoce – parliamo della metà degli anni settanta –, ha stabilito anche un punto di cambiamento nell’arte contemporanea. È la svolta per lasciarsi alle spalle l’arte concettuale, per ricominciare a dare un valore estetico, di bellezza all’immagine; non vagamente «bellezza», ma intesa come coerenza in cui ogni dettaglio ha il suo specifico senso e peso nell’insieme. Luce, colori, forma: quante volte tornano nel discorso di Wall?

Tante. Anzi, si tratta addirittura di seguire una «paletta» di colori. Sono questi gli elementi base per dare all’immagine unità e armonia, in modo che ogni suo lavoro viva autonomous, indipendente dalle precedenti opere. Eppure, sostiene, è sempre grande lo stupore nel vedere infine come tutte le scene fotografate siano fra di loro concatenate.
Lo ribadisce anche per questa mostra, dove è lui stesso ad aver pensato a un allestimento in undici sezioni senza criteri cronologici o tematici, ma per «affinità», come spiega poi dettagliatamente in catalogo. Non è quindi raro vedere accanto alla tecnica del lightbox, abbandonata nel 2007, le fotografie in bianco e nero degli anni successivi: spesso nel buio, una sorta di controcanto delle scatole luminose, sempre però su grande scala.

«Ho sempre pensato che il mio lavoro abbia forti affinità col Realismo». Suonerebbe strano detto da un artista che soppesa ogni minimo fattore della composizione (luce, colore, spazio), che lavora minuziosamente sul fotomontaggio, sull’artificio. Ma se si ripensa a L’Atelier du peintre di Courbet, primogenito del Realismo, ciò prende senso: la realtà si costruisce pezzetto per pezzetto, poco alla volta. Wall è un indagatore della società, nelle sue molteplici sfaccettature, e per questo si definisce erede di Balzac. Distaccato.

Non c’è però dubbio che sia la condizione di emarginazione, degli offesi e umiliati (The Night), a suscitare in lui maggiore empatia, «una poesia potente, un’improvvisa manifestazione di qualcosa d’antico nel presente». Conia un concetto, near documentary (quasi un reportage), che spiega bene immagini come Milk, Mimic, Mask, Overpass o la lunga fila di disoccupati in Men waiting, nelle quali la sofferta condizione umana, la tensione di cui è portatrice, emerge proprio da una calibratissima resa tecnica. Tutto è estremamente calcolato come se fosse stato preparato per un set cinematografico; fino all’apice surreale, grottesco, di Dead troops talk, dov’è inscenato un colloquio – siamo nel 1986 – tra soldati russi morti a seguito di un’imboscata afgana.

E qui arriviamo al cuore della sua fotografia: la similitudine tra di essa e il cinema. Quando capisce di poter creare fotografie cinematograficamente, ecco allora che gli si spalanca una finestra, «è come se mi fossi introdotto in una gigantesca caverna sotterranea con infinite nicchie e corridoi…». A parlar chiaro è già il titolo dell’intervista tra lui e Martin Schwander, curatore della mostra: «I miei quadri sono essenzialmente sceneggiature non scritte»; il che lascia meglio intuire che cosa intenda quando definisce le sue foto writing images (immagini scritte). Alla stregua di un set cinematografico, Wall prepara l’immagine accuratamente grazie alla massima dedizione concessa dai figuranti; scena in cui l’iniziale sconcerto per l’incongruenza di alcuni elementi – l’«immacolato» venditore di rose (non ricorda alla lontana la fanciulla della Ronda di Rembrandt?) o il potenziale killer senza mitra in un tranquillo quartiere cittadino o la bambina distesa sul marciapiede in un assolato e affollato giorno – diviene stratagemma per una narrazione che costringe l’osservatore a sostare a lungo, a ricomporre e a riflettere sull’immagine. Uno stratagemma attraverso un intenso trattamento degli elementi che compongono la scena per rendere visibile, detto in sintesi, ciò che sentiamo ma che non possiamo vedere.

Ancora una particolarità nella storia di questa fotografia. Wall ricorre spesso nelle sue conversazioni alla parola «pastorale». Glielo ricorda il curatore nell’intervista, e questo succede già a partire dai primi anni ottanta. Pastorale, si spiega, è il modo in cui oggi, con la memoria rivolta a tempi lontani, guardiamo ai brandelli di una natura divorata. Storyteller, un gruppetto di persone sparpagliate su un campo scosceso all’ombra di un incombente, gigantesco ponte autostradale, in ascolto di un racconto, ne è in mostra la migliore spiegazione; o meglio, la spiegazione non scritta ma messa in scena.

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