Jeff Sessions, razzista e nemico dei diritti delle donne e degli omosessuali
Usa Il «nuovo» ministro della giustizia Usa
Usa Il «nuovo» ministro della giustizia Usa
L’Alabama non è un posto come gli altri. Il politico ricordato ancora oggi con più affetto da queste parti è il governatore George Wallace che dopo essere stato negli anni Sessanta uno dei più accerrimi difensori della segregazione razziale ha continuato a dominare la scena locale per altri due decenni. Qui, nella città di Mobile, ancora nel 1981 si è verificato l’ultimo caso di linciaggio degli Stati Uniti: alcuni membri del Ku Klux Klan hanno sgozzato e quindi impiccato ad un albero Michael Donald, giovane afroamericano che avevano incontrato per caso per strada.
Se si pensa che è tra la destra dell’Alabama che Jeff Sessions, il senatore ultraconservatore nominato da Trump alla guida del Dipartimento della Giustizia, ha costruito la carriera politica, la sua fama e il suo profilo già minacciosi acquistano se possibile una luce ancora più sinistra.
Nato nel 1946 a Selma, luogo simbolo della lotta del movimento per i diritti civili dei neri che qui subì una feroce repressione, dopo una breve carriera come avvocato, Sessions, attivista repubblicano fin da giovane, diventerà giudice e quindi procuratore generale dello Stato del sud grazie al sostegno di Ronald Reagan. Quando, nel 1986, il presidente icona della nuova destra statunitense lo proporrà per l’incarico di giudice federale, la commissione giustizia del Senato boccierà però la sua candidatura a causa delle note posizioni razziste dell’uomo, testimoniate anche da una lunga serie di dichiarazioni inquietanti. Sessions aveva infatti criticato un avvocato bianco che difendeva dei neri, definendolo «una disgrazia per la sua razza» e sostenuto che alcune delle maggiori associazioni antirazziste del paese, l’American Civil Liberties Union e la National Association for the Advancement of Colored People, fossero in realtà dei gruppi «comunisti e anti-americani», un vocabolario degno del maccartismo, che odiavano i bianchi e «cercavano di imporre ai cittadini statunitensi i diritti civili». In un’altra occasione, malgrado i tristi precedenti dell’Alabama, si era lasciato andare a quella che poi definirà come «una battuta», spiegando di aver pensato a lungo che «quelli del Ku Klux Klan fossero gente a posto finché non ho scoperto che fumavano erba».
Le posizioni razziste che avevano fermato la sua carriera nella magistratura federale non gli impediranno però di arrivare al Congresso, dove è stato eletto ininterrottamente fin dal 1996, godendo in seguito anche del sostegno del Tea Party, e dove si è conquistato, a detta del National Journal, la nomea di «uno dei senatori più conservatori del paese».
Nemico giurato dei diritti delle donne e degli omosessuali, si è illustrato, perfino in opposizione ai vertici del Partito repubblicano nelle campagne contro l’aborto e il matrimonio per tutti, Sessions è però diventato soprattutto il punto di riferimento a Washington dei movimenti neo-nativisti che hanno lanciato da tempo una crociata contro l’immigrazione. Definito dai ricercatori del Southern Poverty Law Center, la maggiore ong antirazzista del paese, come il «campione degli estremisti anti-immigrati e anti-musulmani», il senatore dell’Alabama che fu tra i primi, oltre un anno e mezzo fa a schierarsi apertamente a favore di Trump e del suo progetto di muro al confine con il messico e di espulsioni di massa degli «irregolari», è in stretto contatto con gruppi come la Federation for American Immigration Reform, il Center for Security Policy, il Center for Immigration Studies e NumbersUSA, tutte realtà che con la scusa di voler contrastare la «minaccia» ispanica e musulmana si battono per preservare quella che definiscono come la «European-American society and culture», stabilendo un ponte tra i «nazionalisti bianchi», i nuovi suprematisti, e il Gran Old Party. E ora con l’amministrazione Trump.
Per una drammatica ironia della sorte, Jeff Sessions andrà ad occupare, ai vertici della Giustizia, il posto occupato negli ultimi otto anni, per la prima volta, da due afroamericani, prima Eric Holder e quindi Loretta Lynch. È proprio vero, oltre che «grande» l’America promessa da Trump si appresta a diventare di nuovo anche «bianca».
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