Sia Jean Rolin, che suo fratello Olivier hanno militato per la causa gauchista, tra gli anni Sessanta e i Settanta, molto impegnati a fianco dei maoisti francesi. E entrambi hanno descritto questa loro fondamentale esperienza in vari libri tanto da meritarsi l’appellativo di fratelli Goncourt del post-Sessantotto.

Dei due, Jean Rolin, grande viaggiatore, ha pubblicato molti reportage narrativi, tra cronaca e finzione, sempre mostrando – dall’estremo oriente alle periferie europee – gli spazi resi desolati dalla modernità avanzata.

Tra le pagine di Joséphine, (traduzione di Martina Cardelli, Quodlibet, pp. 96, € 12,00) Jean Rolin offre non solo il ritratto di una donna scomparsa, profondamente amata, attraverso ricordi tanto vivi quanto disordinati; ma soprattutto la sostanza di una relazione, della quale dà conto la stessa Joséphine in un diario ritrovato dall’autore: «È estremamente doloroso restare chiusi in sé stessi, fa male al cuore, è difficile (…). Provo a dare una definizione dell’amore; l’amore è la possibilità di dissimularsi in un altro, di dimenticare di esistere». Frasi che vengono trascritte dall’autore con l’intento di suscitare in chi legge una disposizione mentale simile nei confronti di Joséphine.

In una temporalità sospesa («vivevamo fuori del mondo») nonostante il riferimento a dettagli, luoghi e date, la vita di questa giovane donna viene rievocata in tutta la sua complessità tramite una scrittura nitida e incisiva, splendidamente riprodotta dalla traduzione di Martina Cardelli: nonostante appaia luminosa per la sua seducente ingenuità, trasparente e leggera, totalmente priva di posa e di calcolo, Joséphine è avvolta dal buio opprimente al quale la inchioda la sua sofferenza, fatta di angoscia e smarrimento.

Chi fosse Joséphine lo veniamo a sapere da elementi extratestuali: nel libro non compaiono cognomi, e tuttavia non è difficile risalire al fatto che era la moglie del noto filosofo della French Theory, Félix Guattari, coautore di celebri testi scritti a quattro mani con Gilles Deleuze.

Evocato semplicemente con l’iniziale del suo nome (“F.”), Guattari era stato scosso profondamente, nella realtà, dalla relazione con questa donna, che dipendeva dall’eroina e che era convinta, come testimonia Jean Rolin, che la sua tossicomania avesse logorato gli ultimi anni di vita del filosofo, portandolo alla morte. Secondo un’altra versione dei fatti, quella dell’amico comune Jean-Jacques Rebel, Guattari si sarebbe servito di Joséphine per autodistruggersi. Come che sia, Jean Rolin si astiene ovviamente dal dire la sua, e non intende, peraltro, esaurire l’esistenza della donna in una sua immagine biografica.
Inaugurato dal sogno ottimista di Joséphine (un dittatore buono viene salvato con una bacchetta magica dai suoi amici cattivi), il libro si chiude menzionando alcune canzoni di Claude Nougaro, che serbano il ricordo di una donna «leggera, e quasi imbarazzata da tanta leggerezza – come se persino quella leggerezza fosse troppo pesante da portare».