A prima vista il mondo del noir, con le sue ambiguità morali, il suo cinismo, i suoi antieroi, sembrerebbe incompatibile con l’universo della guerra, dove i confini amico-nemico sono netti e i soldati devono credere nella causa per cui combattono e mostrarsi pronti al sacrificio. Tuttavia, le cose non stanno così. Nel raccontare la guerra non solo i moderni, ma già Omero, si soffermava ripetutamente sugli eroi falliti, sullo sgretolarsi del confine tra bene e male, su un contesto desolato e indifferente ai destini dell’uomo: su un mondo, dunque, moralmente non diverso dalle quelle che sarebbero diventate le buie mean streets battute dal Philip Marlowe di Raymond Chandler o dal Sam Spade di Dashiell Hammett. Non è un caso se il genere nasce a cavallo tra le due guerre. Un recente saggio sulla narrativa americana della Seconda guerra mondiale si spinge a contrapporre alla sua celebrazione come good war, l’idea che si sia trattato, al contrario, di «una guerra noir».

Oltre il conflitto «hardboiled»
In piena sintonia con questa prospettiva, Isole di sangue è apparso lo scorso anno negli Stati Uniti col titolo originale Five Decembers, a firma di James Kestrel (pseudonimo dell’autore di horror e dark thriller Jonathan Moore), nella prestigiosa collana Hard Case Crime, vincendo numerosi premi e ricevendo ovunque recensioni entusiastiche (impeccabile traduzione di Alfredo Colitto, Bompiani, pp. 432, € 19,00). Il romanzo va oltre l’idea di una guerra hardboiled: è un «classico» noir con tutti i tratti distintivi del genere in materia di personaggi, atmosfere, linguaggio, che però a metà strada si fa racconto di guerra per sfociare infine in un mix tra noir, tragedia e racconto del reduce. La copertina dell’edizione originale, in stile marcatamente vintage come vuole la collana, ci mostra un uomo in di spalle, in piedi di fronte a una finestra oltre la quale si estende un cielo di fuoco solcato in lontananza da un aereo nero, mentre in primo piano una donna orientale, in ginocchio sul letto, copre la sua nudità con un lenzuolo bianco. Come in Pulp Fiction, l’intento è sollecitare la nostalgia del lettore per un’epoca al tempo stesso idealizzata e oggetto d’ironia. In Isole di sangue le convenzioni sono non solo riprese, ma rivisitate: Joe McGrady, l’antieroe protagonista del racconto, non è un navigato detective, e il caso di duplice omicidio che gli viene affidato è frutto di una macchinazione che sorpassa i confini locali per abbracciare un intero mondo già in fiamme.

Potremmo essere a Casablanca, e invece siamo a Honolulu, alla viglia del giorno del Ringraziamento, nel novembre 1941. L’attacco a Pearl Harbour è dietro l’angolo, c’è un clima di allerta, ma gli americani, com’è noto, saranno colti di sorpresa. Il detective McGrady, della polizia locale, è davanti a un meritato bicchiere di whisky quando lo raggiunge una telefonata. Un giovane militare e un altrettanto giovane donna sono stati trucidati barbaramente. Per inseguire il sospettato, Joe McGrady vola a Hong Kong, ignaro che tra l’imminente raid dell’aviazione giapponese e il caso assegnatogli esiste un legame. Nella colonia britannica, anch’essa attaccata dall’esercito nipponico, McGrady viene fatto prigioniero. Da lì finisce a Tokyo, dove lo attendono inaspettate rivelazioni su un caso che ben presto va oltre la caccia al singolo assassino per gettare luce sulle circostanze che hanno portato alla guerra – una guerra che, se le cose fossero andate diversamente, forse avrebbe potuto essere evitata. O almeno così vogliono credere alcuni dei protagonisti di una vicenda in cui le sorprese si susseguono a ritmo incalzante, spesso rovesciando gli stereotipi di fronte ai quali ci attenderemmo di trovarci. Il nemico non si limita a trovarsi dall’altra parte, è anche in casa, annidato dove meno te l’aspetti. E tra i giapponesi non mancano gli antiimperialisti contrari alla guerra. Gli anni passano, McGrady impara il giapponese (gli servirà poi a risolvere il caso) e sarà testimone dell’inimmaginabile violenza che incenerisce la città di Tokyo, descritta in pagine particolarmente efficaci in cui Kestrel riesce nella non facile impresa di ricordarci ciò che comporta ogni singola vita umana spezzata.

Il mondo non aspetta
Con un linguaggio estremamente asciutto, l’autore registra non solo il disincanto e l’isolamento di McGrady, ma la sensazione, che non lo abbandona mai, di arrivare sempre troppo tardi o di fare troppo spesso la mossa sbagliata. «Forse la casa buia era stata abbattuta. Forse al suo posto ne avevano costruito una nuova. Il mondo non era restato ad aspettare il suo arrivo». Il mondo non aspetta che McGrady sveli come sono andate veramente le cose. Nel racconto abbondano i controfattuali: «Se Mikayo non fosse morta…. Se avesse detto agli americani ciò che sapeva». «Se Vincent Russo quella notte non avesse bussato alla sua finestra…» – in sintonia con l’idea che se McGrady avesse capito subito come stavano le cose, tutto sarebbe stato diverso. Ma come avrebbe potuto? I numerosi periodi ipotetici sparsi nella narrazione sono soprattutto un’ironica litania che esprime il rammarico di fronte a un Fato capriccioso e imprevedibile. Non c’è da stupirsi, dunque, se alla fine il registro narrativo vira verso la tragedia, e in particolare verso una vendetta il cui amaro sapore Kestrel stempera in un ultimo capitolo dove il rigore dell’inverno giapponese – agli antipodi dell’eterna primavera delle Hawaii – sembra essere stato ripreso da uno dei racconti del Klondyke di Jack London.