Nell’atrio del Maxxi di Roma, con una camicia rosa shocking fuori dai pantaloni e un cappello di paglia blu notte che toglie e mette, ritoglie e rimette, James Ellroy si sottopone a un servizio fotografico, ovvero – per lui – a una tortura. È l’autore dei Crime Novels più importanti dai tempi eroici del (da lui e non solo) amato Hammett e (da lui) detestato Chandler. Ha acconsentito a venire in Italia per promuovere il suo ultimo libro, Gli incantatori, tradotto da Alfredo Colitto per Einaudi Stile Libero Big, pp. 624,  € 22,00, e  recensito su Alias da Luca Briasco), nel quale precipita Marilyn Monroe nello stesso tritacarne che aveva già impugnato per smontare leggende americane come quelle dei fratelli Kennedy o di James Dean.

Conosce le regole del gioco, dunque, prova a essere disciplinato, ma dura poco: non ci si conquista il soprannome di «Demon Dog» per caso. Via via che si sbottona, l’innato gusto per la provocazione gli prende la mano, e così, mentre parla dei grandi casi giudiziari che sono stati i cavalli di battaglia della sinistra americana finge di appisolarsi, mima il gesto di farsi una sega, e sprofonda nella poltrona, come vinto dalla noia.

Su un solo punto James Ellroy, nel suo tour italiano, è intransigente: nell’anno del duello per la Casa Bianca ha detto che non intende lasciarsi martellare di domande da chi vuole sapere se voterà o meno per Donald Trump (a noi, per fortuna, interessa altro); in compenso, non può esimersi dal lanciare strali sempre più acuminati contro qualsiasi cosa puzzi di sinistra: tiene al suo anticomunismo radicale, e lo ribadisce.

È  stato spesso accostato a Dostoevskij, ma sostiene di non averlo mai letto: chissà se è vero. Per alcuni versi ricorda piuttosto Balzac, il grande reazionario che nella sua opera metteva a nudo i segreti inconfessati della borghesia in ascesa, per la delizia di Marx e Engels, che lo adoravano. Anche Ellroy nei suoi libri svela tutti ciò che nei luoghi del potere americano ci si affanna a nascondere, gli intrighi, le trame, la corruzione, la maleodorante falsità delle apparenze.

Ultimo gigante dell’Hard Boiled, un genere letterario che deve la sua longevità e la sua ingente fortuna proprio alla capacità di stabilizzarsi sul confine tra criminalità di strada e natura perversa del grande gioco dei potenti, il Demon Dog non sfugge alla tradizione. La porta anzi alle estreme conseguenze con una crudezza impietosa, che è in qualche modo il suo marchio di fabbrica, insieme a una ricerca stilistica che raggiunge spesso vette vertiginose.

È  il voyeur della letteratura americana, e lo ostenta: spia i potenti e i grandi divi per scoprirli all’opera nella loro nudità. Forse era inevitabile che prima o poi si imbattesse in Freddie Otash, il protagonista dei suoi ultimi due libri e presumibilmente anche dei prossimi. Nella realtà Otash è stato il più turpe e malfamato tra gli investigatori privati americani, e la biografia che ne hanno scritto Josh Young e Manfred Westphal, The Fixer, è appena uscita negli Stati Uniti e deve il suo successo di vendite probabilmente alla rinnovata notorietà regalatagli da Ellroy.

Ex poliziotto, ex marine, «scavafango» per i più spudorati tabloid scandalistici, a cavallo tra il mondo di Hollywood, quello del crimine e quello della politica, Otash è stato il Grande Spione di Los Angeles. Ellroy non ha dovuto faticare per dotarlo delle sue stesse passioni, trasformandolo un po’ nel suo primo vero alter ego letterario e un po’ nell’opposto esatto del private eye più famoso di sempre: Philip Marlowe, il  cavaliere senza macchia, immerso nella città del peccato.

Il Freddie Otash di Ellroy, come del resto quello reale, è un altro cane indemoniato che in ogni corrotto angolo della Città degli angeli caduti si trova in casa propria e spia – fra le pagine degli Incantatori  Marilyn Monroe, come il vero Otash la aveva effettivamente spiata, per conto del marito Peter Lawford.

Partiamo dal suo ultimo libro, poi rifaremo la sua strada all’indietro. «Gli incantatori» ruota tutto intorno alla morte di Marilyn Monroe e ai torbidi rapporti dell’attrice con John e Robert Kennedy. Quando scrisse «American Tabloid», il suo romanzo sulla storia segreta della presidenza e dell’assassinio di JFK, scelse di non citare l’attrice, nonostante la sua relazione con il presidente fosse considerata il principale lato oscuro nella storia di John Kennedy. Perché allora preferì non parlare affatto di Marilyn e ora le ha dedicato un intero libro?
Marilyn Monroe non mi è mai piaciuta. Era priva di talento come attrice e molto superificiale come essere umano. American Tabloid era un libro sui cinque anni precedenti l’assassinio di Kennedy, nella cui vita Marilyn Monroe ebbe in realtà un ruolo molto secondario. Inserirla come personaggio avrebbe sbilanciato completamente la trama. Fra l’altro, fu una presenza minore nella vita di John Kennedy salvo che negli ultimi mesi prima della morte: perché allora aveva cominciato ad aprire la ciabatta. Parlava fin troppo.

Tutta la sua opera si può leggere come una metodica e spietata demistificazione di quelli che sono considerati gli eroi americani della seconda metà del secolo scorso: i Kennedy, Luther King, James Dean, ora Monroe. Mi chiedo se, in modo più velato e implicito, lei non miri a smontare altrettanto impietosamente anche i codici del genere noir, per come si sono affermati e sviluppati da Raymond Chandler in poi.
Si fa sempre una gran confusione, a mio parere, e questa è destinata a produrre equivoci. Il noir è uno stile letterario e cinematografico preciso, che si è sviluppato in Francia nel secondo dopo guerra e che arriva ai primi anni Sessanta. Penso che lei alluda invece all’hard boiled, che nasce molto prima, nel 1929, con il romanzo di Dashiell Hammett Red Harvest. Se Hammett è l’alfa dell’hard boiled ebbene io sono l’omega. Quanto a Chandler, è vero che non lo apprezzo affatto: dando vita a Marlowe scriveva di cosa avrebbe voluto essere, mentre Hammett scriveva di cosa temeva di essere.

Quindi, lei si sente molto più vicino a Hammett…
Certamente!

A proposito di stile noir nel cinema, Hollywood è spesso presente nei suoi romanzi ed è  al centro degli ultimi due. Ricorda film e registi che non solo le piacciono ma dei quali direbbe che l’hanno anche decisamente influenzata come scrittore?
I film che sono stati fondamentali per me sono tre e capita che siano tutti e tre italiani. Il più importante, ma non il migliore, è La dolce vita di Fellini, che è del 1960, dove si trova, anticipato, tutto ciò che avrebbe poi connotato quel decennio. Poi L’avventura, di Antonioni, dello stesso anno, più profondo e metafisico. Ma il film che mi ha influenzato di più è certamente Blow Up, ancora di Antonioni, del 1966. Perché riguarda i costi morali e spirituali del voyeurismo e, come capirà, questo mi  toccava direttamente. Ricorderà che Vanessa Redgrave, «Big Red», durante un litigio nel parco uccide un uomo. Di nascosto, e del tutto casualmente, David Hemmings scatta una serie di foto, poi le sviluppa, si insospettisce,  e cerca di ricostruire cosa sia successo attaccando le diverse immagini su una parete di sughero; è un espediente che ho ripreso più volte nei miei romanzi. Vanessa Redgrave va dal fotografo e cerca di farsi dare i negativi: anche se è in scena appena una ventina di minuti, credo che Big Red in quel film sia la presenza più magnetica mai apparsa sullo schermo. Alla fine del film tutti sanno che David Hemmings passerà la vita sperando di incontrarla di nuovo. Di sicuro è stato così per me.

La stragrande maggioranza dei suoi romanzi è ambientata nei trent’anni tra il 1943 e il 1973, con un taglio storico che va oltre il semplice espediente letterario. Cosa la interessa e cosa la affascina di quel periodo, a parte gli elementi legati alla sua biografia?
Posto che il presente non mi interessa affatto, la verità è che non so cosa mi attragga in quel trentennio. Di sicuro gli elementi biografici non giocano alcun ruolo. Guardo la Storia con gli occhi del voyeur: se scopro qualcosa che sembra una «trama segreta», persone che si incontrano e complottano, di certo colpisce la mia immaginazione. È come se fossi attratto dalle cose che marciscono e che perciò potranno germogliare e diventare una grande storia da raccontare.

Per tornare alla sua opera di smitizzazione, c’è qualche personaggio pubblico in quel trentennio che invece salverebbe?
Sì, una figura che salverei c’è: Ronald Reagan. E mi piace anche Whittaker Chambers, il giornalista che scrisse Witness. Era stato comunista, e aveva fatto la spia per i Sovietici, ma poi si schierò attivamente contro il comunismo fece molte denunce. Da lui ho ripreso un’interpretazione di quella fase storica che credo condividano in pochi: è stata una sfida tra comunismo e cristianesimo. Il mio prossimo romanzo con Freddy Otash protagonista, che sarà fortemente anticomunista, affronta una vicenda che lei certamente conosce: quella della Commissione per le attività antiamericane alla quale collaborava anche un certo Richard Nixon, che nel 1948, l’anno in cui io sono nato, era già un giovane congressman.

Nonostante lei si dichiari apertamente conservatore tuttavia è molto apprezzato, almeno in Italia, anche dalla sinistra per l’onestà e la crudezza e con cui denuncia i metodi e gli intrighi del potere. Penso, ad esempio, a come tratta la caccia alle streghe anticomunista e la montatura intorno al celebre delitto della Sleepy Lagoon nel «Grande Nulla»…
Preferisco non parlare di politica, però sono sempre stato un moralista e se vedo qualcuno che non si comporta come dovrebbe lo dico e lo scrivo. Ma su Sleepy Lagoon lei si sbaglia: nel mio libro parlo di quella vicenda per come fu vista e interpretata non per come andò davvero. Nella realtà non ci fu nessun intrigo del potere. Quei sedici ragazzi latino-americani accusati di omicidio non erano innocenti, anche se uno solo aveva ucciso. Prima di scrivere quel libro, con un amico del Los Angeles Police Departement avevamo studiato tutta l’inchiesta: migliaia di pagine. Ma era una storia noiosissima: secondo il mio amico, il delitto più noioso degli anni Quaranta; ma io direi di tutto il XX secolo. Come il caso di Sacco e Vanzetti, che per inciso erano colpevoli. Solo a sentirlo, c’è sempre chi salta sulla sedia e strilla «Fascista». Ma è la verità. La perizia balistica, ripetuta a quarant’anni dal delitto, ha confermato che a sparare fu la pistola di Bartolomeo Vanzetti.

Cambiamo argomento: lei è uno dei pochi scrittori che nel corso del tempo ha mutato radicalmente stile, e prosegue ancora così, di romanzo in romanzo. Alcuni suoi libri segnano una vera cesura stilistica col passato, anche se poi  periodicamente torna a una scrittura più piana e convenzionale. Cosa l’ha spinta a modificare il suo stile quando era già un autore affermato e che rapporto c’è tra i registri adottati di volta in volta e il contenuto dei diversi romanzi?
Mentre stavo scrivendo L.A: Confidential l’editor mi chiese di tagliare un centinaio di pagine. Lo feci senza intervenire minimamente sulla struttura del romanzo, rendendolo solo più conciso. Il successivo, White Jazz, l’ultimo del LA Quartet, era scritto  in prima persona. Anche per questo decisi di insistere su quel registro calcando ancora di più la mano. Con Sei pezzi da mille ho portato quello stile al parossismo ma col senno di poi penso di avere così parzialmente danneggiato la trama del romanzo. Quindi subito dopo con Il sangue è randagio, l’ultimo libro della American Trilogy, ho preferito una prosa più convenzionale, anche se sempre dura e diretta. In Perfidia e Questa tempesta ho ripreso uno stile molto sintetico, che mi era necessario per rendere la complessità delle emozioni dei personaggi.

Infatti è molto interessante come in «Perfidia» e «Questa tempesta» lei modifichi profondamente l’immagine dei personaggi del Quartet, ambientato in tempi più recenti, mettendone a nudo la dimensione emotiva e la complessità. È vero per tutti i protagonisti, ma soprattutto per Dudley Smith e Kay Lake.
Kay Lake è in assoluto il personaggio più importante di tutti i miei romanzi: perché è l’Avventuriera. In Dalia Nera la troviamo negli anni tra il 1946 e il 1949, negli altri due romanzi vediamo come era prima, all’inizio della guerra mondiale. In effetti il progetto del secondo LA Quartet, a cui poi ho rinunciato, era proprio finalizzato a mostrare i personaggi del primo Quartet quando erano più giovani e in formazione, in una Los Angeles anche lei più acerba. Ma quel progetto l’ho abbandonato e sostituito con quello che chiamerei il LA Quintet. Panico, il primo libro con Freddie Otash, è un po’ un romanzo, un po’ una serie di racconti ed è essenzialmente un libro comico. Non fa parte del Quintet. Gli Incantatori, il mio ultimo libro, invece sì. È  il terzo dopo i due sulla guerra e racconta la stessa storia di  Panico ma da un punto di vista tragico invece che comico. Si svolge nel 1962 ma guarda anche all’indietro, agli anni del dopoguerra, attraverso la vicenda del suicidio dell’attrice Carol Landis. Anche i due prossimi e ultimi volumi del Quintet saranno ambientati negli anni Sessanta.

A parte il noir francese e alcuni film italiani, ci sono scrittori europei che l’hanno altrettanto influenzata?
Leggo quasi solo libri americani e esclusivamente Crime Stories. Avevo cominciato la Millenium Trillogy dello svedese Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne, ma mi ha disgustato e l’ho lasciato quasi subito. Con tutte quelle torture mascherate da antimisoginia… è un libro profondamente immorale.

Eppure direi che Larsson è uno dei tanti scrittori che si sono ispirati a lei…
Lei crede? Io non direi. Intanto era un radicale di sinistra. Poi i suoi personaggi sono sempre alle prese con i computer e io non ho mai usato un computer in vita mia. È  uno strumento satanico.