«Ho sempre avuto l’impressione che il suo progetto principale, il suo impulso primario, fosse quello di scrivere romanzi, e che questa orribile situazione – l’oppressione e le violazioni della nostra società – si siano messe di traverso. Ed è imperdonabile. È come se ci fosse un altro grande artista a cui non è stato permesso di esistere»: così Jamaica Kincaid – autrice caraibica che tante pagine ha dedicato all’eredità della violenza coloniale – a proposito di James Baldwin, forse il più celebre scrittore afroamericano della seconda metà del Novecento, di cui il 2 agosto cade il centenario della nascita (avvenuta a New York nel quartiere di Harlem). Sappiamo che sua madre era una donna amorevole, il cui sorriso ricorre spesso nelle pagine del figlio, mentre del padre non si hanno notizie. Baldwin crebbe con il patrigno, inflessibile predicatore battista, con il quale avrebbe avuto un rapporto intensamente conflittuale.

Angelo della vendetta
Tuttavia, per suo tramite si avvicinò alla chiesa, e scoprì così il potere della parola, sperimentandosi già in giovanissima età come abile oratore, capace di infiammare i fedeli con la forza dei suoi sermoni, spesso improvvisati com’è tipico della tradizione religiosa afroamericana. Le sue insegnanti, riconoscendone il talento, ebbero a dire che Baldwin era in grado di scrivere «come un angelo», precisando però che la sua voce suonava come quella di un feroce messaggero di vendetta. L’afflato veterotestamentario e la veemenza della retorica saranno infatti i tratti più riconoscibili dello stile di Baldwin, indipendentemente dalle molteplici forme che avrebbe acquisito la sua scrittura.

Frustrato dalle vessazioni del razzismo statunitense, tormentato dalla progressiva rivelazione della propria omosessualità, Baldwin lasciò il paese nel 1948 e in cerca di fortuna si ritirò in esilio volontario a Parigi per i successivi nove anni. In un dibattito al Dick Cavett Show del 1969, incalzato dal filosofo Paul Weiss che lo accusava di dare troppo peso alle questioni della razza, dichiarò: «me ne andai a Parigi convinto che là non mi sarebbe potuto succedere niente di peggio di quel che mi era capitato in America. Se giri le spalle a questa società puoi morire, ed è difficile sedersi alla macchina da scrivere e concentrarsi se sei terrorizzato dal mondo circostante. Gli anni che ho passato a Parigi mi hanno curato da questo terrore».

In Francia, Baldwin si dedicò inizialmente soprattutto alla saggistica e alla scrittura di pezzi d’opinione. È del 1949 «Everybody’s Protest Novel», in cui, critica aspramente Paura, il romanzo di Richard Wright – sebbene questi si fosse prodigato per aiutarlo – leggendovi l’incapacità di andare al di là della mera protesta sociale. Il saggio sarebbe poi confluito in Questo mondo non è più bianco (1955), prima, lucidissima raccolta di riflessioni sul razzismo, che mostra al tempo stesso l’acume critico di Baldwin e la sua coscienza politica mai slegata da una visione intensamente umanistica dell’esistenza, unite al fuoco biblico della prosa.

Risalgono agli anni parigini anche i primi due romanzi: Gridalo forte (1953) un’opera semi-autobiografica in cui religione, razza e scoperta di sé si intrecciano sullo sfondo della Harlem natia, raccontata in una voce che l’autore stesso sentiva «più vicina a Bessie Smith che a Henry James».

Già in questo suo esordio, Baldwin si dimostra capace tanto di sofisticate indagini dell’animo umano quanto di esporre i mali dell’America a lui contemporanea, riportando sulla pagina, attraverso una voce al tempo stesso incisiva e struggente, le pulsioni intricate del cuore, filtrate da una esasperata sensibilità.

Tutto si chiarisce e si rafforza ancora nel secondo romanzo, La stanza di Giovanni, dove la prosa di Baldwin raggiunge forse il suo punto più alto, esibendo espliciti contenuti omoerotici nel racconto di un amore proibito e destinato alla rovina, almeno apparentemente privo di connotazioni razziali. Ma la passione autodistruttiva di David, ricco americano di una bianchezza stereotipata, che si riflette nella noncuranza con cui affronta la vita, e di Giovanni, irruente cameriere italiano condannato alla ghigliottina, nasconde un’articolata allusione al rapporto fra il nord e il sud del mondo e alle costrizioni societarie dell’identità di genere.

Il tutto trasceso in una storia tragica dedicata agli effetti nefasti dell’incapacità di amare. Amore che Baldwin intendeva come «il duro sentimento universale di ricerca, di ardimento e di crescita» che tiene insieme il mondo, quel sentimento che lo avrebbe riportato in patria nel 1957, spinto dal desiderio di contribuire al nascente movimento per i diritti civili.

È questa la contingenza in cui Baldwin diventa lo stentoreo portavoce delle aspirazioni dell’America nera, grazie alla sua infaticabile attività di conferenziere, saggista e attivista che lo terrà occupato per tutti gli anni Sessanta. Escono in rapida successione Nessuno sa il mio nome (1961, quest’anno ripubblicato da Fandango, che accanto ad alcune iniziative collaterali ha avviato nuove edizioni di diversi libri di Baldwin: prossimo titolo, il 9 agosto, Se la strada potesse parlare) e La prossima volta il fuoco (1963), roventi raccolte di scritti politici che fecero di Baldwin la voce dell’intellighenzia e della protesta afroamericana. Negli anni Settanta, complice la scarsa attenzione critica nei confronti dei suoi romanzi più recenti, Baldwin, amareggiato e forse non più a suo agio nel ruolo che l’urgenza dei tempi gli aveva ritagliato, tornerà nuovamente in Francia, nel paesino provenzale di Saint-Paul-de-Vence, dove sarebbe morto nel 1987.

Il demone della scrittura
È alla luce di questa parabola che va riletto quanto Jamaica Kincaid ha scritto di lui, mostrandocelo come una figura tragica, divorata dalla passione per la scrittura e consumata dall’impegno civile: una rappresentazione onesta e compassionevole che non esaurisce però l’opera e l’umanità di Baldwin. Il ritratto di Kincaid, accanto a quelli realizzati da altri scrittori e studiosi, è stato pubblicato nello splendido God Made My Face: A Collective Portrait of James Baldwin, (Dancing Foxes Press) il cui titolo rimanda a una rappresentazione polifonica capace finalmente di restituire all’autore la dimensione che gli è propria, di modo che anche la sottrazione di un singolo tassello rende infedele il disegno generale.

A riprova di ciò, in uno dei contributi critici più originali e brillanti degli ultimi anni, Physics of Blackness (2015), Michelle M. Wright parla della scrittura di Baldwin come «quantistica», articolata cioè su più dimensioni parallele e che «sfugge a ogni tentativo di linearità». Baldwin il predicatore, Baldwin l’attivista politico, Baldwin il poeta, il romanziere, il conferenziere, la voce scandalosa delle rivendicazioni queer: tutte queste parti sono state da lui agite al massimo delle possibilità, e nessuna di queste può mancare al rendiconto della sua formidabile complessità.