Nei suoi Lineamenti di filosofia del diritto Hegel scriveva che le basi dell’ordinamento giuridico dello Stato non devono essere considerate come qualcosa di prodotto dall’uomo: pur essendo «sorta nel tempo», la «Costituzione» andrebbe considerata «come un’entità divina e perdurante, superiore alla sfera delle cose che vengono ‘fatte’». Sta qui, secondo Adorno, uno di quei punti ciechi in cui la dialettica si arresta e la storia assume i caratteri dell’astorico. L’atto costituente – necessariamente qualcosa di posto dall’uomo – deve apparire come qualcosa che, invece,  a lui si impone.

L’intera vicenda della normatività moderna nasce in questa lacerazione tra artificialità positiva e radicamento sostanziale dell’ordine giuridico: all’idea illuministica, illustrata da Kant, di una autonomia assoluta (nel senso proprio di ab-soluta, non vincolata) della ragione che pone una legge derivata esclusivamente da sé, si contrappone l’esigenza di fondare l’ordinamento all’interno di una dimensione sostanziale, anteriore all’atto di posizione del diritto. È su questa scissione tra contingenza costitutiva di ogni diritto positivo e sua effettualità concreta che si innesta la polemica della scuola inaugurata da Carl von Savigny: rifiutando tanto il giusnaturalismo, quanto l’illuminismo – entrambi convinti di poter stabilire a priori, astrattamente, la legittimità della norma – Savigny ricerca nella storia la dimensione contemporaneamente positiva e costitutiva dell’agire normativo.

La dimensione storica, infatti, pur essendo qualcosa di prodotto dagli uomini, fornisce contemporaneamente al giurista un bacino concreto e sostanziale di norme, consuetudini, tradizioni, pratiche, che vincola l’elemento normativo a una comunità umana data. Ma l’ambiguità sta nel fatto che, oggetto della scienza storica e giuridica, la storia rappresenta contemporaneamente una dimensione vincolante, indisponibile all’arbitrio e alla decisione. Secondo Savigny, non è allora l’atto del legislatore a creare positivamente il diritto; piuttosto, è in quel complesso storico-naturale che va sotto la vaga e indeterminata nozione di «spirito del popolo» che andrebbe cercata la sua autentica fonte e che sarebbe compito del giurista determinare. Ma in cosa consista lo «spirito» di un popolo è questione tutt’altro che semplice e «positiva».

Proprio a partire da questa ambiguità si andranno sviluppando una serie di discipline e di problemi che porteranno a grandi imprese intellettuali, così come a tragici fraintendimenti. Da un lato, infatti, il tentativo di radicare il diritto nella storia e non più nella ragione astratta dell’illuminismo, implica il riconoscimento della complessità presente in ogni dimensione normativa, invitando a indagarne le condizioni materiali e concrete; dall’altro, la rivendicazione del carattere storicamente particolare e specifico di ogni tradizione culturale, se assunta come unica fonte del piano normativo, comporta il rifiuto di quell’universalismo del diritto che costituisce il presupposto dell’emancipazione moderna. La compresenza di queste due dimensioni è l’elemento più significativo dell’opera intellettuale di Jacob Grimm. È infatti sulla scia della ricerca giuridica di Savigny, che Grimm intraprenderà una ricerca della lingua considerandola non semplicemente come strumento di comunicazione, ma come sedimento dell’esperienza storica e culturale di un popolo: allo studio etimologico del tedesco, Grimm affiancherà quindi la grande opera di collezione e di sistemazione della tradizione del racconto e della fiaba popolare, per la quale, insieme al fratello, è universalmente noto.

La recente pubblicazione della Poesia del diritto (a cura di Luigi Garofalo e Francesco Valagussa, Marsilio, p. 194, € 30,00) permette finalmente al lettore italiano di trovare le diverse prospettive dell’opera di Grimm reciprocamente articolate all’interno di un testo unico e organico, per quanto conciso. Scritto in un momento di transizione fondamentale del suo percorso intellettuale,  Poesia del diritto esprime nella maniera più vivida l’unitarietà tra dimensione etica e analitica dello sforzo scientifico di Grimm. L’indagine sulle origini del diritto all’interno della poesia popolare era uno sviluppo dell’intuizione di Savigny – di cui Grimm aveva seguito le lezioni a Marburgo e di cui era stato assistente a Parigi.

Contro ogni riduzionismo positivistico, «valutare il diritto dal punto di vista della poesia» serviva infatti a liberare entrambi da un doppio pregiudizio: che il primo fosse «mera statuizione» del legislatore e la seconda nient’altro che l’«invenzione boriosa» del poeta. Al contrario, proprio lo studio analogico della poesia e del primissimo diritto di matrice germanica, porta a vedere in entrambi i fenomeni il riflesso di quell’elemento normativo concreto che si impone tanto al giurista quanto al poeta: per questo, entrambi vennero originariamente qualificati sia come «trobadores» che come «creatori»; entrambi infatti «trovano» quell’elemento «fuori della storia» che è fonte normativa ed esplicitandolo lo rendono storicamente fattuale.

Il tentativo analogico di Grimm si rivolge a quel luogo in cui il linguaggio compare nella sua doppia veste mimetica e performativa: la parola qui non solo scopre come stanno le cose, ma dice anche come devono essere. La fortuna di Grimm sarà purtroppo, come quella di molta scienza romantica, segnata dall’appropriazione che ne fece il nazionalsocialismo: gli apparati dei curatori Luigi Garofalo e Francesco Valagussa, e il saggio di Valerio Pescatore, chiariscono l’idea secondo la quale l’origine del diritto risiede nello spirito popolare, che diverrà una di quelle «idee senza parole» in cui secondo Jesi consiste l’elemento essenziale del pensiero della destra, e che avrà la sua espressione più feroce nel rifiuto del diritto romano (ossia positivo) del nazismo.

L’essere contemporaneamente dentro e fuori dalla storia, comporta sempre, infatti,  il rischio di divenire strumento di una pericolosa «macchina mitologica», passibile di mutarsi in una fonte cieca, inattingibile dell’ingiunzione normativa; viceversa, solo radicandosi «nel fiume del divenire», secondo l’indicazione di Benjamin, l’origine del diritto può esprimersi come discontinuità del corso omogeneo della storia, e non come sua ripetizione ideologica. Nell’opera di Grimm questi due momenti dell’origine appaiono ambiguamente, ma anche produttivamente intrecciati: l’origine trova, infatti,  nella «meraviglia» la propria dimensione essenziale, là dove, come la parola poetica, è capace di mostrare le cose che ci sono più vicine e più prossime nella loro «lontananza» inaccessibile.