J.D. Salinger, una grazia forbita e venata di assurdo
Grandi dialoghi/5 Dai «Nove racconti»: veterano della seconda guerra mondiale, J.D. Salinger conosceva la nausea dei reduci: da qui questa storia, che uscì sul «New Yorker» l’8 aprile 1950
Grandi dialoghi/5 Dai «Nove racconti»: veterano della seconda guerra mondiale, J.D. Salinger conosceva la nausea dei reduci: da qui questa storia, che uscì sul «New Yorker» l’8 aprile 1950
Forse nessuna rivista americana ha mai raggiunto la reputazione del «New Yorker» tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta. Non era insolito che uno scrittore si impegnasse per lungo tempo alla revisione di una storia che alla rivista era piaciuta, ma non abbastanza per guadagnarsi il visto si stampi. J.D. Salinger lavorò un anno al rifacimento di «Un giorno ideale per i pesci banana», il racconto che lo rese famoso, e mesi interi per sfrondare di sei pagine la prima versione di «Per Esmé – con amore e squallore», pubblicato l’8 aprile del 1950 (entrambi poi inclusi nei Nove racconti del 1953).
Salinger non ricevette mai così tante lettere come per la sua Esmé, almeno fino a quando, nel 1951, non pubblicò Il giovane Holden. Molte gli arrivarono da veterani della guerra da poco finita. Salinger era uno di loro, aveva visto tre battaglie campali anche se non in prima fila (per via della sua buona conoscenza del francese e del tedesco era un sergente maggiore del controspionaggio), ma era stato tra i primi ad entrare a Kaufering IV, sottosezione di Dachau, dove aveva sentito quell’odore di carne bruciata che, come poi disse, lo accompagnò per sempre. Sapeva che cos’era il «disordine da stress post-traumatico», anche se allora non lo si chiamava così. Conosceva la nausea verso il mondo di cui soffrivano i reduci e che l’America del dopoguerra aveva subito voluto cancellare. I veterani che lessero «Per Esmé» capirono e lo ringraziarono.
Il racconto è diviso in due parti. Per penetrare nello strano incantesimo del dialogo che occupa la prima parte bisogna iniziare da un breve passaggio della seconda: siamo in Baviera, alcuni mesi dopo la resa della Germania. Un sergente della U.S. Army di cui non sappiamo il nome (è il «Sergente X»), appena dimesso da un ricovero per «esaurimento nervoso» non si decide ad aprire le lettere che gli sono arrivate nel frattempo. Una donna appena arrestata aveva tra le sue cose un libro di Joseph Goebbels. Il sergente lo apre e rilegge ancora una volta una nota che la donna ha scritto a penna sul risguardo: «Buon Dio, la vita è un inferno». Quelle parole, vergate da una nazista, gli sembrano più vere della vittoria degli Alleati.
Retrocediamo alla prima parte. Siamo a Devon, in Inghilterra, aprile 1944, poche settimane prima dello sbarco in Normandia. Il sergente, che ora parla in prima persona, ha notato nella chiesa locale una ragazza di tredici anni che canta divinamente, ma senza mostrare alcuna passione. La ragazza si è accorta di essere osservata e più tardi, in una sala da tè dove arriva accompagnata dal fratellino minore e dalla zia, attacca discorso con il sergente: «Lei mi sembra molto intelligente, per un americano».
Si badi, siamo già all’inferno. La ragazza ha perso il padre in Africa e la madre, presumibilmente, sotto un bombardamento. Ma «ha un titolo», è una piccola nobildonna, e dopo aver detto di chiamarsi Esmé, preferisce non divulgare il suo cognome. Non davanti a un americano, visto che i soldati americani di stanza a Devon «si comportano come animali». Però il sergente appare educato, sensibile, e si sente solo. Un’aristocratica orfana di guerra, padrona di un linguaggio singolarmente forbito, forse non rinuncia alla sua dignità se si mette a parlare con lui. Definendolo «molto intelligente» di fatto lo mette in questione. In un certo senso gli chiede di svelare i suoi titoli e qual è il suo casato, anche se solo mentale. Esmé è abbastanza democratica per pensare che, in assenza di titoli, l’intelligenza li può sostituire. Ma il suo attaccare discorso ha uno scopo: vuole sapere cosa sono l’amore e lo squallore. Il sergente non è sicuro che la ragazza sappia davvero cos’è lo squallore, ma c’è un errore nella vita, un torto iniziale così profondo che non lo si può nemmeno verbalizzare. Squallore può non essere il termine giusto per definirlo, ma ce n’è forse uno migliore?
Nel corso del dialogo, Esmé viene spesso interrotta dal rumoroso fratellino, verso il quale dimostra una pazienza al limite dell’indifferenza senza mai varcarlo, quel limite. Non ha ancora imparato ad essere compassionevole. Né ha avuto il tempo di imparare ad amare. Ma porta al polso un orologio troppo grande per lei; è quello di suo padre, sul quale lo sguardo del sergente si fissa ipnotizzato. Potrebbe quasi farle da cintura.
Il dialogo non è simmetrico. Non è scritto battuta contro battuta, non è l’equivalente verbale di un campo-controcampo cinematografico. Salinger e Hemingway si conoscevano e si stimavano, ma i dialoghi di Salinger stanno all’opposto di quelli di Hemingway. Se toccano la verbosità, il loro fine è dirci che quel certo personaggio è condannato a essere verboso. Ma Esmé non è verbosa. Piuttosto, attraverso di lei parla il Mondo. Quando pronuncia la frase: «Di solito non sono eccessivamente estroversa» dietro il suo dire si apre lo spazio di tutti coloro che in qualsiasi circostanza e in ogni tempo hanno formulato quella frase. Esmé è una sonda semantica, parla in prima persona come se parlasse in terza. Il sergente americano è per lei sia un soggetto da laboratorio sia colui che ha l’autorità di giudicarla. Esmé vuole sapere se il sergente, che ha attraversato lo squallore, è ancora capace di amare sua moglie. È questa la risposta che vuole portare con sé.
Il sergente non ha più nessun rapporto con il Mondo dal quale vengono le parole di Esmé. Risponde in discorso indiretto. Si trattiene, e ciò è necessario per la logica del racconto. La sua occasione deve ancora venire, e quando verrà sarà in terza persona.
Un anno dopo, infatti, quando il «Sergente X» reduce dall’ospedale si decide ad aprire il pacco che gli ha mandato Esmé, trova l’orologio, e anche per lui il tempo ricomincia a scorrere. Ma non incontrerà più Esmé, nemmeno quando lei anni dopo lo inviterà al suo matrimonio.
Nel suo dettagliato Huck’s Raft: History of Childhood in America (Harvard 2004), Steven Mintz dedica un paragrafo al giovane Holden come archetipo del ribellismo post-bellico, ma non menziona gli altri adolescenti di cui è popolata l’opera di Salinger: Franny, Zooey, Teddy, i primi anni di Seymour. Forse perché adolescenti non lo sono affatto. Sono pueri seniles, dotati di una grazia giovanile unita alla consapevolezza della vecchiaia. Da loro dovrebbe trasparire una calma senza l’ombra dell’apatia, una saggezza senza il peso della disillusione, una padronanza della mente senza la superbia dell’esperienza ostentata. Ma la loro grazia è tinta d’assurdo, e con l’assurdo viene la tragedia. Hanno già sofferto tutto ciò che la loro mente, se non ancora il loro cuore, può soffrire. Come Teddy nell’ultimo dei Nove racconti, possono andare incontro a un destino che ad altri – ma non a loro, che sanno già ogni cosa – apparirà ingiusto e crudele. Oppure, come Esmé, potranno salvarsi dallo squallore e perfino giungere all’amore – non sappiamo se il suo matrimonio sarà felice, ma non importa – soltanto perché hanno appreso lo squallore e hanno imparato a tenerselo ben stretto.
Il dialogo
Da J.D. Salinger, «I nove racconti», traduzione di Carlo Fruttero, Einaudi 1962
– Lei mi sembra molto intelligente, per un americano, – meditò la mia ospite.
Le dissi che la sua era un’osservazione molto snob, a rifletterci un momento, e che speravo che fosse indegna di lei.
Lei arrossì, conferendomi automaticamente quella statura mondana che m’era finora mancata. – Sarà. Ma quasi tutti gli americani che ho visto si comportano come animali. Stanno sempre a prendersi a pugni, e insultano tutti quanti e… lo sa che cosa ha fatto uno di loro? Uno di loro ha gettato una bottiglia di whisky vuota dentro la finestra di mia zia. Per fortuna, la finestra era aperta. Ma le sembra una cosa intelligente?
Non mi sembrava affatto, ma non lo dissi. Dissi che molti soldati, in molte parti del mondo, erano lontani da casa e che ben pochi di loro avevano avuto una vita facile. Dissi che non ci voleva molto a capire queste cose, o almeno, così mi pareva.
– Sarà, – disse la mia ospite senza convinzione. Si toccò di nuovo la testa con la mano, raccolse qualche rada ciocca afflosciata e cercò di coprirsi le orecchie. – Ho i capelli fradici, – disse. – Ho una testa che fa paura -. Alzò gli occhi su di me.
– Sono molto ondulati, quando sono asciutti.
– Si vede. Anche così, si vede.
– Non proprio ricciuti, ma molto ondulati, – disse. – È sposato, lei?
Dissi che lo ero.
Lei annuì. – È profondamente innamorato di sua moglie? O è una domanda troppo indiscreta?
Dissi che alla sua prima indiscrezione l’avrei avvertita.
Lei spinse le mani e i polsi più avanti sul tavolino, e ricordo che mi venne la tentazione di intervenire in qualche modo a proposito di quel suo enorme orologio; magari suggerendole di provare a portarlo intorno alla vita.
– Di solito non sono eccessivamente estroversa, – disse, e mi guardò per vedere se conoscevo il significato della parola. Ma io non mi lasciai sfuggire il minimo indizio, né in un senso né nell’altro. – Sono venuta al suo tavolo perché m’è sembrato che lei si sentisse estremamente solo. Lei ha una faccia estremamente sensibile.
Dissi che aveva ragione, che infatti m’ero sentito solo e che ero contento che fosse venuta al mio tavolo.
– Mi sto esercitando a essere più compassionevole. Mia zia dice che sono una persona terribilmente fredda, – disse, e di nuovo si toccò la sommità della testa. – Abito con mia zia. È una persona estremamente buona. Dopo la morte di mia madre, ha fatto tutto quanto era in suo potere perché Charles e io ci sentissimo a nostro agio.
– Mi fa piacere.
– La mamma era una persona estremamente intelligente. Molto sensuale, sotto molti aspetti -. Mi guardò con una sorta di ingenua perspicacia. – Mi trova terribilmente fredda, lei?
Le dissi di no, assolutamente anzi, tutto il contrario. Le dissi il mio nome e le chiesi il suo.
Lei esitò. – Il mio nome di battesimo è Esmé. Ma preferirei non dirle il mio cognome, per il momento. Ho un titolo, e c’è il rischio che lei sia di quelli cui i titoli fanno colpo. Con gli americani succede, sa?
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