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Italia vent’anni nel rugby che conta. Ma è sempre cucchiaio di legno…

Italia vent’anni nel rugby che conta. Ma è sempre cucchiaio di legno…

Sport Gli azzurri si presentano al ventesimo Sei Nazioni, il terzo sotto la guida tecnica di Conor O’ Shea, ancora una volta nel ruolo di gran sfavoriti e candidati all’ultimo posto. Domani sfida ad Edimburgo la Scozia

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 2 febbraio 2019

Venti edizioni, numero tondo. Vent’anni nel rugby che conta, quello dei piani nobili, delle nazioni blasonate e ricche di storia. Vent’anni vissuti un po’ così, tra delusioni (molte), qualche soddisfazione e un paio di momenti di effimero entusiasmo. In questo ventennio di Sei Nazioni, il torneo di rugby più antico del mondo, l’Italia ha cercato di crescere, progredire, fare risultati e reggere il passo delle sue avversarie. Missione in parte fallita. In due sole occasioni (2007 e 2013) gli azzurri sono riusciti a vincere almeno due match del torneo; per tredici volte hanno chiuso in coda alla classifica e in otto di queste occasioni non hanno mai vinto una partita.

SAPPIAMO come tutto cominciò. Con un esordio vincente, il 5 febbraio del 2000, contro la Scozia detentrice del titolo. In panchina c’era un allenatore neozelandese, Brad Johnstone, in campo Dominguez, Troncon, il capitano Giovannelli, Cuttita e un giovane Mauro Bergamasco. Una parte di loro aveva guidato la nazionale fin lì con suonanti vittorie su Scozia, Irlanda e Francia, meritando sul campo l’ammissione al più prestigioso dei tornei. Si giocò in uno stadio Flaminio piccolo e inadeguato, dotato di una sala stampa che sembrava una caverna. La vittoria illuse, il proseguo riportò tutti con i piedi per terra: al secondo turno il Galles ci sgranocchiò, con Irlanda e Inghilterra non andò meglio. Ci abituammo poi a regolare la corsa sulla Scozia, in quegli anni un po’ malmessa, ma dopo un decennio anche la nazionale del cardo cominciò a allungare il passo diventando irraggiungibile; l’involuzione del rugby francese – dalle bollicine dello champagne a un mosto appesantito – ci consentì un paio di fiammanti successi, poi anche lì le cose si sono rimesse a posto, i pianeti riallineati, i valori tecnici ristabiliti. 

In quei primi anni molti di noi presero a riferimento proprio la storia della Francia nel Sei Nazioni. I coqs furono ammessi per la prima volta nel 1910 e presero parte a 17 edizioni del torneo, fino al 1932, quando furono esclusi per ragioni di professionismo (proibito) e di violenza (in campo e fuori). Sarebbero stati riammessi soltanto nel secondo dopoguerra. In quelle diciassette edizioni i francesi vinsero in tutto 12 partite (come l’Italia in 19 edizioni), collezionarono 12 cucchiai di legno (13 gli azzurri), per 7 volte non vinsero neanche una match del torneo (contro 8 whitewash dell’Italia). Come numeri siamo lì.

La Francia riuscì a conquistare il suo primo titolo soltanto nel 1959, quarantanove anni, trenta edizioni e due guerre mondiali dopo l’esordio. Qualora la storia intendesse ripetersi, proponendo al rugby italiano lo stesso cammino già riservato ai nostri cugini d’oltralpe, dovremmo aspettarci che gli azzurri conquistino il loro primo Sei Nazioni all’incirca nel 2030. Per quella data è peraltro possibile che alcuni di noi non abbiano possibilità di godere del lieto evento, essendo nel frattempo passati a miglior vita, ragion per cui ogni scongiuro è lecito.

Azzurri candidati al cucchiaio di legno

L’Italia si presenta al suo ventesimo Sei Nazioni, il terzo sotto la guida tecnica di Conor O’ Shea, ancora una volta nel ruolo di gran sfavorita e candidata all’ultimo posto. La squadra ha compiuto alcuni progressi ma il passo delle sue avversarie continua a essere più veloce. A novembre c’è stata la vittoria con la Georgia, rassicurante per questioni inerenti la geopolitica del mondo ovale ma non del tutto convincente sul piano tecnico, poi la sconfitta netta con l’Australia e l’umiliante confronto con gli All Blacks. Mancheranno Mattia Bellini e Matteo Minozzi, i nostri migliori finalizzatori, entrambi reduci da seri infortuni, e mancherà Jake Polledri (forse disponibile negli ultimi turni del torneo) che nell’ultima stagione ha portato in terza linea energia e qualità. Tre pedine chiave, assenze pesanti per una squadra che non sempre riesce a proporre seconde scelte all’altezza dei titolari. Rientra il capitano Sergio Parisse, alla sua centotrentacinquesima presenza in maglia azzurra.

BEN CHE VADA per l’Italia sarà un Sei Nazioni di transizione, una tappa in un cammino che si fa ogni giorno più arduo, dovendo misurarsi con una realtà dove la capacità di miglioramento delle avversarie è di gran lunga superiore a quella del nostro rugby. Se l’avvento del professionismo (anno 1995) era la grande sfida da sostenere, quella sfida ci vede per ora sconfitti su tutti i fronti, da quello tecnico a quello organizzativo, fino a quello culturale. Vent’anni fa l’Italia si affacciava al Sei Nazioni con l’entusiasmo della nuova arrivata e si faceva portatrice al grande pubblico di uno sport della cui diversità valoriale era bello menar vanto. Sugli spalti, nelle cronache televisive, nei piccoli club di provincia, l’appartenenza alla tribù ovale era motivo d’orgoglio; oggi tutto questo rischia di diventare qualcosa di stucchevole, una foglia di fico che deve nascondere una nudità imbarazzante.

La prima del giornata del Sei Nazioni 2019 propone Francia-Galles, Scozia-Italia e Irlanda-Inghilterra.

Il primo avversario degli azzurri è la Scozia, domani a Edimburgo (diretta tv su Dmax, 15.15). L’anno scorso gli azzurri uscirono sconfitti per soli 2 punti dall’Olimpico e fu l’unica partita in cui la bilancia sembrava poter pendere a nostro favore. Prevalsero invece, seppur soltanto nel finale, la tecnica, il mestiere, il carattere, la resistenza, la disciplina. Ovvero le basi su cui poggiano i successi. La Scozia è la squadra che meno di tutte ha sposato il nuovo credo di Ovalia, quello della progressiva demolizione fisica dell’avversario. Tra i suoi trequarti si coltiva ancora il gusto del guizzo e della fantasia, si privilegia l’estro rispetto alla pura potenza, è evidente il piacere per il gioco alla mano. Questo la rende amabile, affascinante, a volte irresistibile, più spesso vulnerabile. Non vincerà il torneo ma ha le carte in regola per poter far male a qualsiasi avversaria.

Stasera allo Stade de France di Parigi (Dmax, 21.00) il match di inaugurazione tra Francia e Galles. I padroni di casa occupano il 9° posto nel ranking di World Rugby, i dragoni il terzo. Un anno fa a Cardiff finì con un successo gallese di strettissima misura (14-13). Nei test match novembrini il Galles ha sconfitto tutte le avversarie, comprese Australia e Sudafrica; la Francia ha invece battuto solo l’Argentina, perdendo con Sudafrica e soprattutto con Figi.

DULCIS IN FUNDO, la sfida di Dublino (Dmax, sabato alle 17.45) tra l’Irlanda, campione in carica con grande slam, e l’Inghilterra che chiuse la scorsa edizione con tre sconfitte e il penultimo posto. E’ il match tra le due grandi favorite alla vittoria finale. Gli irlandesi sono secondi nel ranking mondiale, hanno sconfitto gli All Blacks a novembre, non perdono una partita dallo scorso giugno (contro l’Australia nel tour che ha comunque visto i verdi aggiudicarsi per 2-1 la serie di test). Il XV della Rosa ha perso una sola partita nei test match di novembre (contro gli All Blacks e con lo scarto di un solo punto) e affila le armi in vista dei mondiali in Giappone del prossimo autunno.

 

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