Il genocidio armeno e la «questione curda», i kemalisti laici e i riformisti islamici. Il partito «della giustizia e dello sviluppo», l’osservanza della tradizione che nega libertà di stampa e di parola. Poi i giornalisti uccisi, le proteste contro le grandi opere che asfaltano il paese, la guerra in Siria e gli attentati dell’Isis, le bombe del Pkk. Un signore di nome Erdogan che dopo dodici anni di governo diventa il primo presidente della repubblica eletto dalla popolazione; quindi le armi e i profughi, i carri armati che sfilano per la città, il tentato colpo di stato e le persecuzioni; l’Europa, che un mese dopo l’altro si allontana.

C’È TUTTO QUESTO e molto altro nei romanzi che raccontano la Turchia di oggi, e forse è davvero troppo da tenere insieme in una storia sola, ma in fondo, a Istanbul, ognuno la storia se la racconta come vuole e questo non ha impedito di provarci a chi è stato costretto a scappare e a chi è rimasto in città, a chi ci è arrivato per seguire un sentimento con l’innocenza di uno straniero o con la meraviglia di un bambino.

Per Valérie Manteau, giornalista francese autrice de Il solco (L’orma, 2019), romanzo-saggio che le è valso il premio Renaudot, la prima volta è il 2013, ma è il 2016 quando inizia a raccontare, ha già trent’anni e una relazione con un ragazzo introverso dalla barba scura. A Istanbul cerca di dimenticare il sangue di Charlie Hebdo, con cui collaborava prima, vorrebbe cancellare il passato studiando il turco e praticando yoga e invece s’imbatte nella storia di Hrant Dink, giornalista armeno assassinato nel 2007 da un giovane nazionalista e diventato sei anni dopo il «nume tutelare» dei manifestanti durante le proteste contro la cementificazione di Gezi Park, uno dei pochi spazi verdi rimasti su cui incombe il progetto di un grande centro commerciale.

Il protagonista de Gli ospiti, l’ultimo romanzo di Marco Magini (Solferino, pp.160, euro 16) – già finalista al Premio Strega nel 2014 con Come fossi solo – ha ventisei anni quando arriva a Istanbul per proporsi a una piccola società di consulenza ambientale. Otto mesi lo separano dagli stessi eventi, è il settembre del 2012 ed è arrivato soprattutto per seguire Ipek, la ragazza turca che ha incontrato a Londra durante un tirocinio – per settimane nient’altro che «una delle tante ombre» che abitavano il suo stesso appartamento, adesso la compagna che vorrebbe accanto per la vita. In entrambi i racconti Istanbul è intessuta di andirivieni al di là e al di qua del Bosforo, i lustrascarpe utilizzano lo stesso vecchio trucco per abbordare i forestieri e le storie cominciano con C’era una volta, e una volta non c’era.

Ci sono il Corno d’oro, Santa Sofia, la Moschea Blu, i vecchi giocano a backgammon seduti davanti ai bar e i fondi polverosi del caffè hanno sempre qualcosa da dire. Eppure è come attraversare due città diverse, due dimensioni parallele avviluppate attorno alla stessa ferita aperta: le rivolte di piazza Taksim e la repressione; fotografie che si propagano secondo un’alternanza vero-falso, Twitter che diventa l’unica fonte «attendibile».

NON SI TRATTA SOLTANTO di prima e di dopo, è lo sguardo a mutare in chi racconta. Quando arriva in città, il protagonista de Gli ospiti ha quello di un’Europa troppo impegnata a intessere carriere per farsi carico della complessità dei ricorsi storici che gravitano attorno a suoi confini. La sua Istanbul è un labirinto indecifrabile di contraddizioni che prende forma tra taxi condivisi e ragnatele di tram, percorsi in salita di fronte a cui persino Google Maps smette di funzionare. «Troppa storia, troppe genti, un mondo troppo difficile da afferrare», ci dice all’inizio. È quello che prova per Ipek a regolare il suo avvicinamento alla città, e con il passare dei giorni, gli occhi della ragazza diventano l’unico filtro per riuscire a vederla davvero. «Tu non capisci, è solo l’inizio», lo interrompe lei nel corso di una discussione. «Appena si accorgeranno che abbiamo accettato quello che fino a poco tempo prima tutti consideravamo tabù, allora scaveranno ancora più in basso, sicuri che l’opinione pubblica sia ogni giorno più apatica, pronta a tollerare l’intollerabile».

Se l’amore ha l’amore come solo argomento, al cuore del romanzo di Magini c’è la messa in questione dell’indifferenza con cui l’Europa sta allevando i propri figli travestendo da «expat» nuovi colonialismi culturali. «La cosa che più fa male è la paura, il senso di rassegnazione» dirà Hus, collega e amico del protagonista una mattina di maggio di fronte alle prime immagini degli scontri. «D’istinto mi sento dalla loro parte, li guardo e mi assomigliano».

E allora, sembra chiedere l’autore a chi legge attraverso le battute disilluse dei suoi personaggi, quanto e cosa siamo ancora disposti a tollerare dall’interno del mercato di cui siamo diventati cittadini? Se è vero che sappiamo rintracciare la violenza, ne esiste una che non ci riguarda?

LA PROTAGONISTA de Il solco, una giornalista d’inchiesta in cerca di sé e in fuga da un’Europa in cui ha smesso di riconoscersi o in cui forse non si è mai riconosciuta, colleziona storie raccolte per strada e discorsi tra amici, sogni cattivi e domande a se stessa. Un groviglio d’informazioni che passando per gli anni zero arriva all’inizio del Novecento e sa come tornare indietro. In questa cornice l’amore è una consolazione mai assodata, una ragione insufficiente. A muovere le cose c’è l’insofferenza epidermica che anima chi non esita a uscire di casa quando è in corso un’ingiustizia.

Nei ricordi della donna che scrive piazza Taksim è «l’epicentro delle manifestazioni», adesso invece è «ostaggio di lavori interminabili», più che agli umani appartiene ai piccioni. La sua Istanbul è fatta di «ombrelli variopinti sospesi a tre o quattro metri da terra» che «hanno preso il posto dei pergolati di vite», conversazioni con illustratori di nome Berkin che «somigliano ai loro disegni come i vecchi somigliano ai loro cani» e indovine originarie di Salonicco, dagli occhi «incredibili» e «molto chiari».

MA NON È IL FAVOLOSO mondo di Amélie, ci sono centri di resistenza chiamati Muz e Sirie in miniatura, sacche di tela con su scritto They call it chaos, we call it home. T-shirt che recitano: Dear past, thanks for all the lessons, e in lettere più piccole, appena sotto: Dear future, I am ready.

Nella sua testa ci sono le parole di Pinar Selek, Asli Erdogan, Ece Temelkuran, Elif Şafak. Scrittrici perseguitate dalla dittatura, alcune finite in carcere, poi fuggite a camminare per le città europee come fantasmi di notte o come donne «morte da un secolo». La maschera della verità, Neppure il silenzio è più tuo, Turchia folle e malinconica, La bastarda di Istanbul, sono i titoli dei loro libri; le loro frasi compongono una voce sola. È il «presente intimo» di cui parla Annie Ernaux in quarta di copertina «l’approccio migliore alla dimensione collettiva». Qualcosa che comunque non sarà abbastanza per evitare a Valérie di sentirsi un’esclusa. Del resto, sfuggire al proprio tempo è impossibile.

E anche lei, come il ragazzo disegnato da Magini, a Istanbul non è che un’ospite della storia.