Alias

Istanbul, sotto le stelle dell’Hammam

Istanbul, sotto le stelle dell’Hammam

Il restauro Riaprirà nel 2024 il «Zeyrek Cinili Hamam» che ora ospita la collettiva «Healing Ruins»

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 14 ottobre 2023

Dalla visione aerea la sequenza di cupole piccole e grandi definisce l’identità dell’architettura. Zeyrek Cinili Hamam, nello storico quartiere di Zeyrek a Istanbul (patrimonio Unesco), tra le memorie stratificate del passato con l’acquedotto romano di Valente, proprio lì accanto e la quotidianità di Itfaiye caddesi che profuma di spezie e saponi all’olio d’oliva, svela il suo palinsesto storico-artistico di luogo reale e immaginifico. Sono diverse le storie che s’intrecciano nella narrazione di questo hammam edificato negli anni 1530-40 che il famoso comandante ottomano Khayr al-Din Barbarossa commissionò a Sinan, l’archistar che raggiunse l’apoteosi del suo «marchio di fabbrica» con Süleymaniye Camii (la moschea di Solimano il Magnifico) continuando la lunghissima carriera con i due sultani successivi Selim II e Murad III. Acquistato nel 2010 da The Marmara Group, l’hammam è stato sottoposto ad un restauro filologico durato tredici anni. Nel 2022, eccezionalmente, fu una delle sedi della 17^ Biennale di Istanbul con le installazioni sonore di Taloi Havini e Renato Leotta. Attualmente, prima della sua definitiva riapertura (prevista per marzo 2024) nella funzione originaria, ospita fino al 5 novembre la collettiva di arte contemporanea Healing Ruins, curata da Anlam De Coster (fino al 5 novembre) intorno al tema della «guarigione delle rovine».

Non ci sono i vapori come nelle scene del film Hamam (1997), girate proprio qui da Ferzan Özpetek nella sua opera prima, è la luce che si riflette sui pavimenti di marmo di Marmara con le quelle venature grigio-blu-violacee ad avvolgere le opere prevalentemente scultoree di ventidue artiste e artisti internazionali: Francesco Albano, Adrian Geller, Alice Guittard, Basak Günak, Maryam Hoseini, Ahmet Dogu Ipek, Lara Ögel, Zoë Paul, Daniel Silver, Panos Tsagaris, Ezgi Türksoy, Elif Uras, Erol Akyavas, Mehtap Baydu, Hera Büyüktasciyan, Dorothy Cross, Candeger Furtun, Cecilia Granara, Renée Levi, Maude Maris, Ayça Telgeren e Marion Verboom.

In parte commissionati dal gruppo alberghiero che ha supportato anche l’esposizione, alcuni lavori saranno successivamente collocati nel giardino di «Zeyrek Cinili Hamam» e in altri spazi espositivi. Healing Ruins si snoda in tutti gli ambienti del complesso termale, tra cui la cisterna bizantina usata da Sinan come fondamenta dell’edificio cinquecentesco, di cui i lavori di restauro hanno fatto scoprire una serie di graffiti sconosciuti. Il lungo intervento di recupero architettonico, documentato nel museo creato appositamente e nel libro Barbarossa’s Cinili Hamam. A masterpiece by Sinan (2023), ha riportato alla luce anche le decorazioni a muqarnas, le coperture delle cupole punteggiate di stelle, ma soprattutto le tracce di mattonelle di Iznik nei tipici colori bianco, azzurro cobalto e turchese e dai molteplici pattern con cui erano rivestite le pareti interne dell’hammam (da cui il nome Cinili che vuol dire piastrellato), sia nella monumentale sezione maschile che in quella femminile più intima, come pure i pannelli esagonali e le otto mattonelle «hammamiye» del XVIII secolo con i versi in persiano che inneggiano alle bellezze dell’hammam. Come attesta un documento anonimo indirizzato a Abdul Hamid II (sultano dell’impero ottomano dal 1876 al 1909) le mattonelle sarebbero state asportate e vendute ad un antiquario di nome Ludovik che le portò a Parigi e da lì andarono a finire in diverse collezioni europee, tra cui quelle del Victoria and Albert Museum, Leighton House a Londra, Louvre, Musée des Beaux-Arts di Lione; altre sono citate negli inventari del Topkapi e dei Musei Archeologici di Istanbul.

Luogo di grande ispirazione, Zeyrek Cinili Hamam, per le artiste e gli artisti che in Healing Ruins si sono lasciati guidare emotivamente dalle tracce del passato. Se lo scultore inglese Daniel Silver ha scolpito il busto di Barbarossa, nel dipinto The Dream lo svizzero Adrian Geller ha dato visibilità ai graffiti tracciati dai prigionieri nell’antica cisterna mentre costruivano l’hammam. Sagome dorate «galleggiano» sulla terra, nel site-specific (Asaroton (hammam) della turca Lara Ögel, all’interno della fontana in stile neoclassico della sezione femminile: nascono dalla fascinazione dell’artista, condivisa con la curatrice, per gli affreschi e i reperti di Pompei, luogo che assurge a simbolo di vita al di là della morte. Anche Ezgi Türksoy nel realizzare il cerchio di conchiglie di porcellana bianca (A Floor Talisman) ne ha affermato la valenza apotropaica di rinascita e fertilitè, mentre Elif Uras in Cosplay si è ricollegata al tema delle mattonelle realizzando un pannello di ceramica di Iznik in cui è illustrata la storica visita all’hammam di Lady Mary Wortley Montagu, autrice di Letters from Turkey (1763).

L’aristocratica inglese, consorte dell’ambasciatore d’Inghilterra presso la Sublime Porta tra il 1716-18, nei suoi resoconti dettagliati (Turkish Embassy Letters è la raccolta uscita nel 1994 con l’introduzione di Anita Desai), oltre che rendere omaggio alla sultana Hafife nell’harem ebbe modo di sperimentare il bagno turco che descrive annotando anche le reazioni stupite delle donne turche nel vedere il suo corpo di donna occidentale costretto nell’«armatura» del corsetto, strati di sottogonne e gonne, secondo la moda del XVIII secolo. L’igiene personale come rito di pulizia per il piacere personale è sempre stata una delle funzioni dell’hammam, erede dei bagni termali greco-romani, con i benefici fisici e psichici prodotti attraverso i diversi passaggi – dal caldo al freddo, frizione, scorrere dell’acqua sul corpo – ma soprattutto per le donne, nella società ottomana, era significativa la sua valenza sociale di regolare meeting point fuori dalle mura domestiche dove potersi esprimere liberamente, bere «kahveci» o «çay», conversare per ore. Come scrive Fatema Mernissi nel capitolo L’harem di Jacques: mute bellezze senza veli nel volume L’Harem e l’Occidente (2000), le donne ancora oggi, in tutto il mondo arabo, vi passerebbero più tempo rispetto agli uomini perché «è forse il solo posto al mondo dove non viene chiesto loro di servire in tavola, o fare qualsiasi tipo di servizio per qualcun altro». Nel ripercorrere le radici storiche del bagno turco, la scrittrice e sociologa marocchina sottolinea anche come esso, in Occidente, abbia nutrito le fantasie erotico-esotiche maschili fagocitando un immaginario lontano dalla realtà, come habitat di donne leziose, discinte e provocanti come è stato rappresentato, in particolare, dai pittori del XIX secolo. Basti pensare a Le Bain Turc (1862) di Jean-Auguste-Dominique Ingres e, dopo di lui, da una schiera di Orientalisti – incluso Jean-Léon Gérome autore di Une piscine dans le harem (1876 c.) – che tranne rarissime eccezioni non mise mai piede in un hammam e meno che mai in Oriente.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento