Un minuto di silenzio e numerose cerimonie in Israele e all’estero hanno contrassegnato ieri il trentesimo giorno dal sanguinoso massacro del 7 ottobre in cui hanno perso la vita 1.400 persone, militari e civili, e 247 sono state prese in ostaggio dal movimento islamista palestinese Hamas.

Candele, bandiere a mezz’asta, l’inno nazionale israeliano, preghiere e fotografie sono i simboli che hanno accompagnato le commemorazioni cominciate già nella sera di lunedì e proseguite il giorno successivo come d’uso secondo il calendario ebraico. Lunedì sera il ministero della difesa ha organizzato alla State Hall of Remembrance sul Monte Herzl a Gerusalemme: nel più grande cimitero militare israeliano è stato svelato un nuovo memoriale con i nomi di 349 soldati, poliziotti e guardie di frontiera morti il 7 ottobre.

IN CONTEMPORANEA i volti degli ostaggi sono apparsi sulle mura della Città vecchia di Gerusalemme. Un giorno di lutto, ma anche di speranza per il ritorno dei vivi che l’Università di Bar-Ilan ha ricordato con una pioggia di palloncini, uno per ogni ostaggio, e di colore giallo, in ricordo della campagna per il rilascio di Gilad Shalit.

Ma anche quello di onorare i morti è un privilegio che non tutti possono concedersi, specie i parenti degli ostaggi che sono impegnati in una corsa contro il tempo che gioca a loro sfavore come la crudeltà della guerra. Per questo le manifestazioni non si sono fermate e, oltre a Tel Aviv e Gerusalemme, per chiedere la liberazione dei loro cari le famiglie hanno raggiunto anche la sede dell’Onu di New York e il Campidoglio a Washington.

A dimostrazione che esiste un pluralismo di voci anche all’interno dell’ebraismo, sempre a New York centinaia di attivisti ebrei, la maggior parte appartenenti all’associazione Jewish Voice for Peace, hanno tenuto un sit-in alla Statua della Libertà chiedendo il cessate il fuoco a Gaza.

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E sempre nella giornata di martedì si è compiuto un altro passo importante a favore della libertà. In seguito alla decisione della polizia di proibire le manifestazioni contro gli attacchi dell’esercito israeliano a Gaza nelle città arabe israeliane come Sakhnin e Umm El Fahem, definendole pericolose per la sicurezza e la pace dei cittadini, il partito Hadash e l’associazione Adalah (The legal Center for Arab minority rights in Israel) hanno presentato ricorso alla Corte suprema sostenendo la violazione del diritto a manifestare e del diritto all’espressione politica e all’uguaglianza basilari.

NEL PARERE richiestole dalla Corte, la polizia ha espresso timori di istigazione al terrorismo portando come esempio precedenti manifestazioni tenutesi nel mese di ottobre. Si tratta di una sfida ulteriore per la Corte suprema i cui membri nei mesi scorsi erano stati i protagonisti di primo piano nella vicenda della riforma giudiziaria e della clausola di ragionevolezza. Un sistema giudiziario che il governo Netanyahu voleva smantellare e che aveva provocato proteste settimanali da gennaio a inizio ottobre.

Del resto, un eventuale accoglimento dell’appello a favore della libertà di espressione dei palestinesi di cittadinanza israeliana potrebbe costituire una preziosa occasione per ricordare al primo ministro Netanyahu e ai membri della coalizione che le ore del loro regime dittatoriale e repressivo sono ormai contate.

Nel frattempo però il governo prosegue con i propri piani: ieri il Consiglio per la pianificazione nazionale ha approvato la costruzione di una nuova comunità ebraica, Hanon, al confine con Gaza. Una mossa contestata dallo staff del ministero dell’Ambiente che ritiene più pressante la ricostruzione delle comunità danneggiate. Il ministro Silman però va avanti, l’ennesima dimostrazione della sconsideratezza della leadership israeliana.