Cultura

Intelligenza artificiale o la banalità dell’opera

Intelligenza artificiale o la banalità dell’opera

Scaffale Intorno al libro «La rivoluzione algoritmica delle immagini» di Francesco D'Isa, per Luca Sossella editore

Pubblicato 23 giorni faEdizione del 4 settembre 2024

Il nuovo libro di Francesco D’Isa, La rivoluzione algoritmica delle immagini. Arte e intelligenza artificiale (Luca Sossella, pp. 160, euro 15), è terapeutico in quanto permette di liberare la scena dai molti «idola» che affollano il dibattito sull’intelligenza artificiale e sulle sue possibili conseguenze estetico-culturali. Se davvero vogliamo «limitare i danni delle macchine», l’autore ci dice giustamente che, al di là di ogni mito umanitaristico, dovremmo non «renderle più umane, ma più disumane».

COSA SIGNIFICA esattamente? Da un lato, abbiamo chi vorrebbe fermare lo sviluppo di queste tecnologie perché apocalitticamente convinto che queste finiranno per distruggere una qualche «autenticità» umana, producendo tra l’altro milioni di disoccupati, dall’altro c’è invece chi pensa altrettanto utopisticamente che queste produrranno una provvidenziale liberazione.
D’Isa, filosofo e artista, riporta la discussione dentro una cornice critica indispensabile per valutare correttamente le ambivalenze di una rivoluzione paragonabile a quella della fotografia che alla fine del XIX secolo ha cambiato radicalmente la scena artistica, ma non ha determinato né la fine dell’arte né, più nello specifico, quella della pittura. Con l’intelligenza artificiale – lo stesso vale per il pennello, per i materiali e per le diverse tecniche artistiche che si sono succedute nei secoli – ci troviamo di fronte a una tecnologia che indubbiamente trasforma il nostro concetto di opera e di autore e che determina una rivoluzione del mondo della produzione culturale, ma che per essere compresa fino in fondo va contestualizzata nel quadro dei rapporti economico-politici che producono disuguaglianze e generano, contemporaneamente, gerarchie culturali e di genere.

IL PROBLEMA, insomma, non è quello di tornare a una inesistente «autenticità», visto che da sempre la relazione con la realtà è mediata da una qualche tecnologia – basti pensare all’alfabeto che è un’invenzione artificiale con la quale costruiamo il mondo – né quello di rivendicare un’«autorialità» individuale dato che le opere sono sempre e soltanto il risultato di una cooperazione collettiva, quanto piuttosto quello di «reclamare» marxianamente un accesso quanto più libero possibile ai mezzi di produzione.
Se da un lato è senz’altro vero che l’AI cancellerà posti di lavoro, è altrettanto vero che questo è sempre accaduto con tutte le innovazioni tecnologiche più importanti. Non è invece vero che l’intelligenza artificiale sostituirà l’essere umano nelle sue funzioni creative: se grazie alle tecnologie Tti (text to image) possiamo produrre molto velocemente e facilmente un gran numero di immagini, queste non sono tutte esteticamente interessanti, così come i testi prodotti da un chatbot non sono sempre letterariamente efficaci.
Se la fotografia ha democratizzato e moltiplicato la produzione di immagini questo non ha fatto di chiunque un artista, così l’AI non fa di chiunque uno scrittore o un pittore, ma piuttosto moltiplica le possibilità offerte a chi svolge una professione creativa. La vera questione intorno a cui interrogarsi, sottolinea giustamente D’Isa, è quella della banalità commerciale della maggior parte della immagini prodotte dai programmi Tti e che dipende dagli archivi a cui queste tecnologie possono accedere e dalla loro organizzazione.

INOLTRE L’IMMAGINARIO prodotto dalle Tti è attraversato da una serie di «censure» che producono un problema politico intorno al quale avrebbe senso organizzare una serie di lotte. Queste tecnologie, insomma, rispondono a un modello culturale «bianco», anglosassone e puritano che da un lato esclude il resto delle variabili, e dall’altro avvantaggia chi può permettersi di accedere a un patrimonio archivistico più ampio. Per questo quelle sul copyright finiscono per essere lotte di retroguardia che favoriscono soltanto le grandi compagnie che acquistano sul mercato milioni di diritti «recintando» l’accesso ai dati.
Ecco perché bisognerebbe aprire e non chiudere i rubinetti, rivendicare una maggiore libertà nella produzione e circolazione delle immagini con la consapevolezza critica che le tecnologie senz’altro non sono neutrali, ma ancora di meno lo sono gli interessi economici e politici che si nascondono dietro la loro gestione privata.

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