Sigfried Giedion

Bauen in Frankreich, Bauen in Eisen, Bauen in Eisenbeton era tra i pochi scritti di Sigfried Giedion ancora da tradurre, e da ben novantaquattro anni, da quando nel 1928 uscì a Lipsia per i tipi di Klinkhardt & Biermann. Si deve all’editore Quodlibet la fine di questa attesa. Costruire in Francia, Costruire in ferro, Costruire in cemento, il «manifesto» dell’architettura moderna, che anticipò quello canonico della Carta d’Atene (1933), è così ora disponibile: curato e tradotto da Emiliano De Vito, con un’introduzione di Jean-Louis Cohen («versione rimaneggiata» dell’edizione francese, Edition de la Villette, 2000) e conforme all’originale nella grafica di Laslo Moholy-Nagy, anche se non nel formato (pp. L + 127, euro 30,00).

Per la verità una parziale traduzione (l’Introduzione) toccò a Vittorio Magnago Lampugnani per il numero di «Rassegna» (marzo 1986) dedicato a Giedion. Nella stessa monografia Sokratis Georgiadis anticipò i motivi dell’importanza di questo testo di storia dell’architettura, dieci anni prima di curare l’edizione del Getty Center for the History of Art and the Humanities (Building in France, Building in Iron, Building in Ferroconcrete, 1995), dettagliando gli antefatti e il ruolo assunto dal libro nello sviluppo delle teorie del Movimento Moderno.

Per cominciare dal titolo, come si è più volte rilevato il riferimento alla Francia non significa che le teorie moderniste avessero trovato in quel paese particolari assetto e diffusione. Nell’illustrare gallerie, ponti, padiglioni, mercati, stazioni e grandi magazzini, Giedion voleva solo dimostrare che i francesi, rispetto ad altri, avevano raggiunto nell’industria delle costruzioni una qualità invidiabile, quindi la più funzionale per l’esposizione delle sue tesi. Gli occorreva tracciare una genealogia per il Neues Bauen e la trovò nelle grandi costruzioni in ferro del XIX secolo, così per il «nuovo costruire» si stabilì la necessaria continuità storica e ideologica e il suo stile poté magnificare una tradizione.

In quelle «costruzioni astratte e intimamente omogenee», giacché depurate di ogni travestimento decorativo o «maschere storicizzanti», lo storico svizzero scorse, oltre a un legame con il passato, il sorgere di un nuovo pensiero che gli consentiva di associare arte e scienza, spirito e realtà, istinto e razionalità: dimostrazione che nella vita «è tutto in movimento, ma indivisibile».
Suddiviso in tre parti, il libro inquadra nell’introduzione l’«entità complessa» dell’Ottocento con i mutamenti sociali prodotti dall’industria, mentre nei due capitoli successivi elenca le prodezze delle grandi opere in ferro dei «costruttori» francesi, da Polonceau a Horeau, da Labrouste a Eiffel, per giungere alle pionieristiche architetture in cemento armato di Perret e Garnier e concentrare poi l’attenzione su Le Corbusier.

Ciò che interessava a Giedion era l’avvento di «nuove norme di espressione formali» che il ferro per primo aveva permesso, poiché con il suo impiego in snelle strutture reticolari, nelle quali le forze trovavano equilibrio in modo puntiforme, si superava la rigida statica delle masse murarie in pietra. Si conquistavano così la trasparenza e la flessibilità. La parete ridotta a un’«epidermide di vetro» consentiva l’esperienza dello «spazio aereo» e la «relazione sospesa con altri oggetti», com’era evidente nel magazzino parigino Au Bon Marché o nei padiglioni delle Expositions.
«Oggetti» che dal 1927 già occupavano la mente di Benjamin (Passagenwerk), il quale, allorché ricevette il libro per recensirlo, scrisse a Giedion di esserne rimasto «elettrizzato», riconoscendogli «di avere illuminato, o meglio svelato, la tradizione osservando il presente».

Purtroppo al buon riscontro della critica non corrispose allora un analogo successo di vendite. Bauen in Frankreich rappresentò tuttavia una novità assoluta, anche se, come riconobbe lo stesso autore, egli non aveva fatto altro che recuperare un dibattito dimenticato intorno alle qualità estetiche del ferro che aveva avuto inizio oltre un secolo prima. Un dibattito che fu intenso nei paesi di lingua tedesca, anche se Giedion non ne fece cenno.

Non incontriamo, dunque, Karl Bötticher, che per primo, in Tektonik der Hellenen (1844), presagiva con il ferro una «nuova architettura», o, dopo di lui, Albert Hofmann, che lodò la «bellezza della linea» derivata dal calcolo matematico degli ingegneri, o ancora Joseph August Lux, che dalla platea del Deutscher Werbund, la Lega tedesca degli artigiani, dichiarava che il ferro «formava lo stile», mentre la pietra lo uccideva. Un dibattito durato otto decenni e che vide schierate anche opinioni contrarie, come quella di Gottfried Semper, che mai tollerò un’«architettura smaterializzata», oppure neutre, come quella di Hermann Muthesius, che restò sempre indifferente fra opere progettate da architetti o da ingegneri.

Non è qui possibile raccontare la ricchezza del dibattito tedesco, ben illustrato nel saggio di Georgiadis di cui si è fatto cenno. Certo è che senza questo acceso confronto intorno all’interpretazione delle costruzioni in ferro, con i suoi quesiti riguardanti la distinzione tra concezione visionaria e calcolo razionale delle strutture, o tra architetto e ingegnere, forse Bauen in Frankreich non avrebbe mai visto la luce.

Compiuta nella prima parte del saggio la «riabilitazione» della tradizione delle costruzioni del XIX secolo, per Giedion era così possibile offrire un’alternativa all’architettura del suo tempo, imbevuta di «pseudomonumentalità». Un termine, questo, che impiegò trent’anni dopo (1958), nel Breviario di architettura, per definire il tarlo che l’aveva colpita. In quel breve saggio retrospettivo spiegò che era stato necessario per il Movimento Moderno partire dai problemi funzionali affinché, con l’immaginazione, si arrivasse a creare dei nuovi «simboli per la comunità», soddisfare così quel «bisogno eterno della monumentalità autentica» testimoniato nei secoli dall’Acropoli ateniese, dalle cattedrali gotiche o dalle chiese rinascimentali.

Il linguaggio dell’architettura d’avanguardia era il solo a interpretare con sincerità le domande sociali e culturali del tempo presente. Con Bauen in Frankreich Giedion attestò di essere lo storico adatto a darne una convincente dimostrazione, anche attraverso l’impegno militante che svolse occupando la posizione di segretario generale nel CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne).

Ancora una genealogia interessa la seconda parte del suo libro nella descrizione dell’altro materiale che, in modo analogo al ferro, consentì di «alleggerire» la materia: il cemento armato, la cui supremazia nella sperimentazione, inizialmente inglese, ebbe ugualmente la Francia protagonista. Furono i brevetti, e non le «visioni fantastiche» di Hennebique, che nel 1892 permisero che, con la piegatura di barre circolari in acciaio agganciate insieme, si arrivasse a strutture monolitiche in cemento. Il cemento armato sovvertì anch’esso, come il ferro, il ruolo dell’architetto quale «romantico eroe del disegno» per eleggere l’ingegnere artefice di uno sviluppo «naturale», e con lui l’«impresa edile industrializzata» che gli stava dietro. Con l’impiego dei nuovi materiali perfezionati nelle tecniche Giedion mostrava che una «nuova forma di vita» intendeva affermarsi: mirava al superamento dell’accademismo ancora presente nei pionieri del cemento armato quali Perret e Garnier.

Solo quando si pose il tema del «problema abitativo» poté emergere una nuova generazione di architetti – per primo Le Corbusier con il brevetto della Maison Dom-Ino (1915) e il complesso abitativo a Pessac (1924) – che si assumeva il compito di aprire una nuova stagione di «grandi costruzioni». A differenza del passato, però, dotate di «valori sentimentali ed emotivi» con al centro l’uomo e la sua comunità.