Si sono progressivamente diradate le posizioni che consideravano l’aumento dei prezzi momentaneo e legato al rimbalzo post pandemico. Era ora. Come più volte sottolineato, la dimensione strutturale della crescita dei prezzi appare sempre più evidente. Questa strutturalità viene però troppo spesso giustificata come figlia di una tempesta esogena all’economia, prodotto dell’accoppiata Pandemia-Guerra. Noi avanziamo un’ipotesi diversa. È la crisi della globalizzazione a precedere gli scontri geopolitici e non viceversa. La tendenza ad accorciare le catene di approvvigionamento, l’aumento dei costi di trasporto, produzioni e materie prime erano già iniziati.

Le politiche protezioniste degli Usa hanno in parte innescato queste dinamiche, ma la guerra dei dazi è figlia delle contraddizioni iniziate con la crisi del 2008, è il tentativo di scaricarle all’esterno. Biden non ha cambiato linea, l’ha aggiustata, cercando un nuovo asse con l’Ue. Non avendo la forza di guidare l’intera economia mondiale fuori dal guado, gli Usa si sono dati come obiettivo principale quello di frenare l’espansione cinese a costo di tornare indietro su una “globalizzazione” sempre meno vantaggiosa. L’aggressione di Putin segue una logica imperiale, ma va inserita in questo contesto di radicalizzazione della competizione e di consolidamento degli scambi commerciali della Russia con la Cina.

La guerra è in parte figlia della deglobalizzazione e, allo stesso tempo, la consoliderà. Anche dopo una pace, che non appare dietro l’angolo, la riallocazione di produzioni e consumi non si fermerà. Ridurre la gittata di produzioni e scambi implica necessariamente un aumento dei costi, ben oltre il problema delle materie prime, che per decenni erano stati contenuti da globalizzazione e delocalizzazioni.
Questo nuovo scenario sta aprendo una fase diversa e nuove saranno le contraddizioni. Dal lato della finanza pubblica, ad esempio, un’inflazione consistente riduce la dimensione reale dei debiti che in questi anni hanno raggiunto soglie senza precedenti in assenza di conflitti mondiali. Anche per questo negli ultimi anni le banche centrali avevano messo in conto un po’ d’inflazione rispetto agli anni d’oro del neoliberismo. Questa riduzione dei debiti tramite inflazione chi la paga?

L’inflazione è nei fatti una tassa occulta. Riduce il valore dei salari reali in assenza di meccanismi di indicizzazione, ma anche dei risparmi accumulati. In questo senso il mondo della grande finanza ha sempre preferito una bassa inflazione proprio per proteggere la ricchezza finanziaria e la stabilità dei mercati. L’intervento delle banche centrali si spiega anche così, per limitare le perdite finanziarie nel breve periodo. Ma attenzione, è anche vero che storicamente i grandi patrimoni e i grandi capitali hanno, alla lunga, più facilità ad agganciare l’inflazione perché hanno gli strumenti per coprirsi almeno in parte dalla svalutazione, a patto che l’inflazione non sia una fiammata improvvisa come quella di questi mesi. L’inflazione sarà un nuovo campo di battaglia che potrà determinare un ulteriore elemento di polarizzazione delle ricchezze, dove i costi della crisi della globalizzazione verranno scaricati su chi non riesce a difendersi dalla febbre dei prezzi, ma potrebbe innescare anche un nuovo ciclo di conflitti sociali.

Certamente se i salari non seguiranno l’andamento dei prezzi il risultato sarà anche una ulteriore spinta alla depressione della domanda. Le indicazioni che arrivano dal bonus di 200 euro varato dal Governo o le preoccupazioni espresse da Visco su una possibile spirale salari-prezzi alimenteranno questa dinamica. Una depressione della domanda che rischia di essere anche l’effetto principale del rialzo dei tassi d’interesse da parte della Fed e ora anche della Bce, che con armi spuntate tentano di ridurre per via monetaria la crescita eccessiva dei prezzi. La stagflazione è veramente alle porte?