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Indonesia, guerra d’indipendenza al Rijks

Indonesia, guerra d’indipendenza al RijksIl dipinto raffigura una Belanda Hitam, «olandese nera»: i Belanda sono un gruppo di africani reclutati dall’esercio olandese delle Indie Orientali durante il periodo coloniale

Ad Amsterdam, Rijksmuseum, "Revolusi! Indonesië onafhankelijk" La colpa storica, atroce, dell’ex impero olandese in una mostra di scritture, disegni, ritratti, video a tutta parete e clip audio d’epoca: dopo le pubbliche scuse del primo ministro Mark Rutte. Un team di studiosi olandesi e indonesiani al servizio di un dispositivo scenico pieno-vuoto, luce-ombra, in cui la ricerca storica si fa emozione anticoloniale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 aprile 2022

La scorza modulare di un ananas maturo, una papaia tagliata a metà, con i semini che traboccano dalla polpa. I colori freschissimi, le forme esuberanti e circonfuse da un alone di mistero. Sembra un post di Instagram, una colazione ricca di vitamine, fibre e antiossidanti. Invece è una natura morta del 1640, anzi una Stilleven, visto che siamo in pieno Gouden Eeuw, il Secolo d’Oro delle Sette Provincie dei Paesi Bassi. L’autore del dipinto è Albert Eckhout, pittore di genere, originario di Groningen e vissuto, tra il 1637 e il 1644, nella Nuova Olanda, corrispondente alla regione nord orientale del Brasile.

Formalmente perfetta, l’opera è esposta al Rijksmuseum di Amsterdam e contestualizzarla nello spazio e nel tempo dell’Epoca Coloniale produce una discordanza tra categorie etiche ed estetiche, una reazione a catena che coinvolge anche altri manufatti e reperti riferibili a un simile ambito, diffusi in molte sale del museo più importante della Capitale olandese. Se, nel XVII secolo, per tentare di rappresentare un mondo ancora tutto da comprendere ci si affidava a un frutto maturo e a uno scorcio di paesaggio esotico, oggi gli ex Imperi guardano al loro passato criticamente, anche attraverso progetti dal taglio tanto storiografico quanto emotivo, come Revolusi! Indonesië onafhankelijk, Rivoluzione! Indonesia Indipendente, mostra (fino al 5 giugno) dedicata alla guerra di indipendenza combattuta, tra il 1945 e il 1949, dalla nazione del sudest asiatico contro la dominazione dell’Impero coloniale nederlandese.

Curata da un team composto da ricercatori e storici olandesi e indonesiani, visitabile al Rijksmuseum fino al 5 giugno, Revolusi! propone un allestimento scandito da un’alternanza serrata di pieni e vuoti, di coni di luce e angoli d’ombra, per tradurre in maniera accattivante un argomento altrimenti specialistico, settoriale. Le sale sono animate da proiezioni a tutta parete di riprese d’epoca, clip audio storiche, bacheche dense di oggetti, poster e opuscoli confiscati dai servizi di intelligence olandesi, manifesti di protesta con slogan inneggianti alla libertà, pagine di diari che si interrompono bruscamente. In esposizione anche molte fotografie scattate degli inviati dei giornali europei e statunitensi. Spiccano quelle di Henri Cartier Bresson, nelle quali il consueto equilibrio compositivo viene agitato da inaspettati accenti drammatici, vividi e corali. Il massimo esponente del moment décisif testimoniò, per l’Agenzia Magnum, le fasi cruciali di passaggio della nascita della Repubblica Indonesiana, dalla proclamazione di Sukarno come primo Presidente, alla ritirata delle truppe coloniali.

Volti e nomi di fotoreporter, combattenti, soldati, artisti, diplomatici, bambini, politici, persone comuni, dell’una e dell’altra parte, si affastellano nelle sale, mettendo in dialogo il punto di vista del colonizzato e del colonizzatore. Ognuna delle loro testimonianze, pervenuteci tramite una scrittura, un disegno, un ritratto, una registrazione, va a comporre una vicenda che, tra le pieghe della cronaca e il rumore di fondo degli eventi, è arrivata ai giorni nostri tutt’altro che inerte, considerando la nutrita percentuale di popolazione nederlandese di origini indonesiane (nel 2021, si è attestata al 2,2%).

Yogyakarta, 1947, tre ragazze, due sono volontarie repubblicane del Sulawesi, foto Hugo Wilmar

Il colonialismo è un fenomeno che lavora ancora oggi, sotto altre forme, nelle aree carsiche della società postglobalizzata, scavando in direzioni oblique per emergere nei quartieri più o meno periferici delle metropoli oppure nei centri della produzione culturale di caratura internazionale. Come il Rijksmuseum, infatti, anche altre istituzioni museali hanno affrontato questo nodo, spesso sotto la pressione dei governi delle ex colonie.

È il caso dei «Bronzi del Benin», dispersi tra collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, dall’Humboldt Forum di Berlino allo Smithsonian Institution, a seguito del saccheggio del Palazzo Imperiale di Edo da parte dell’esercito britannico, nel 1897. Negli ultimi anni la Nigeria ne ha rivendicato il legittimo possesso e adesso ne chiede la restituzione. In Gran Bretagna, la Tate Britain ha recentemente annunciato la commissione di una nuova opera d’arte per «bilanciare» il dipinto murale realizzato nel 1927, per il ristorante del museo, dall’eroe di guerra Rex Whistler, oggi tacciato di riferimenti tossici alla schiavitù. Va ancora oltre il governo del Belgio che, in collaborazione con le autorità del Congo, ha dato il via a un comitato speciale che valuterà tutti i reperti risalenti all’epoca coloniale e acquisiti dalle collezioni pubbliche.

In Italia, sono circa novanta i musei di varia pertinenza, tra storia naturale e antropologia, civici, universitari e statali, dell’esercito e missionari, a ospitare collezioni di oggetti provenienti dalle ex colonie. Il primo Museo Coloniale per «statuto» è stato quello inaugurato nel 1923, a Roma, al Palazzo della Consulta, sede del Ministero delle Colonie, con lo scopo di documentare e presentare al pubblico il legame tra l’Italia e l’Eritrea, la Somalia e la Libia. Dopo aver chiuso i battenti nel 1972, la sua collezione confluì, nel 2017, con il nome di Museo Italo Africano Ilaria Alpi, nel MUCIV – Museo delle Civiltà, un conglomerato di raccolte che comprende, tra le altre, quelle del Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini e il Museo d’Arte Orientale Giuseppe Tucci. Questi passaggi tra depositi e intestazioni meriterebbero un approfondimento, tuttavia il passato coloniale italiano – restringendo il campo ai soli aspetti museologici e museografici – è stato trattato finora in maniera episodica e sembra ancora lontano dal trovare uno spazio di rappresentazione come quello offerto dalla mostra al Rijksmuseum.

Nei Paesi Bassi, l’anno è iniziato con un’ammissione di responsabilità: il primo ministro Mark Rutte si è scusato pubblicamente con l’Indonesia a nome della Nazione, riconoscendo l’utilizzo, da parte dei reparti coloniali olandesi, di violenze sistematiche contro la popolazione civile, durante i periodi più tragici della guerra di indipendenza. Significativo che, ad affiancare i processi politici e sociali di elaborazione della questione coloniale, siano proprio i musei più emblematici dei rispettivi Paesi, istituzioni alle quali si delega la funzione di legittimare l’identità nazionale e che, spesso, rappresentano un’emanazione territoriale delle direttive dei ministeri.

D’altra parte, il museo rimane una struttura circoscritta, in cui far deflagrare, in modalità controllata e con rischi calcolabili – in particolare quando si tratta di mostre temporanee –, narrazioni alternative dalla portata potenzialmente devastante per quelle stesse identità. Rivoluzione può essere il titolo accattivante di un progetto espositivo ma la stessa parola, pronunciata in una piazza, in un parlamento o su un social network, assume una valenza diversa. Di fatto, nell’ex Nederladense koloniale Rijk, l’argomento è diventato quasi un topos. Nel videogioco satirico Nederland – the Game, dedicato, appunto, agli stereotipi nederlandesi, il Player, oltre ad aspettare i treni in ritardo alla stazione di Utrecht Centraal, dovrà bloccare un corteo KOZP (Kick Out Zwarte Piet). Il riferimento è alle decine di manifestazioni contro la riproposizione della figura tradizionale di Zwarte Piet, «Pietro il nero», il piccolo aiutante di Sinterklaas che ancora oggi, in molte città dei Paesi Bassi, si ricorda truccando di nero il viso dei bambini.

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