Internazionale

Incendi a nord, ostaggi a sud: l’Israele di Netanyahu è in fiamme

Un incendio a Ramot Naftali, al confine con il Libano Ap/Ariel SchalitUn incendio a Ramot Naftali, al confine con il Libano – Ap/Ariel Schalit

Medio Oriente A otto mesi dall’inizio della guerra Israele è in fiamme, e non solo dal punto di vista metaforico. Da oltre tre giorni infatti, le forze dell’ordine lavorano incessantemente per domare […]

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 5 giugno 2024

A otto mesi dall’inizio della guerra Israele è in fiamme, e non solo dal punto di vista metaforico. Da oltre tre giorni infatti, le forze dell’ordine lavorano incessantemente per domare gli incendi scoppiati a nord del paese a causa del lancio di razzi e droni esplosivi da parte di Hezbollah che negli ultimi giorni ha intensificato i lanci. Il fuoco ha provocato feriti e causato gravi danni anche a preziose riserve naturali in Galilea e sulle alture del Golan. L’associazione Brothers in arms ha prestato soccorso ai residenti nella zona non ancora sfollati.

NEL FRATTEMPO lunedì è stata diffusa la notizia dell’accertata morte di altri quattro ostaggi, Haim Perry e Yoram Metzger di ottant’anni, Amiram Cooper di 84, tutti residenti nel kibbutz Nir Oz, e di Nadav Popplewell di cinquantuno anni residente a Nirim. La comunicazione ha esercitato una notevole pressione emotiva sulle famiglie degli ostaggi e sull’opinione pubblica in generale, che chiede a gran voce al governo di firmare la trattativa per il ritorno degli ostaggi e il cessate il fuoco sostenuta dal presidente statunitense Biden.

Quest’ultimo nella giornata di martedì si è espresso duramente nei confronti di Netanyahu affermando che ci sono buone ragioni per sostenere che il primo ministro israeliano insista nel proseguire la guerra per ragioni di natura politica.

Benché sia difficile rendersi conto quanto Netanyahu sia davvero solo in quest’ostinazione, per la prima volta dall’inizio della guerra il partito ultraortodosso sefardita Shas si è dichiarato favorevole alla firma dell’accordo, sottolineando l’importanza del riscatto degli ostaggi quale precetto della tradizione ebraica. Si tratta della prima volta dall’inizio del conflitto che un partito ultraortodosso si distanzia dalla posizione ufficiale di Netanyahu.

Sempre ieri la testata israeliana Jerusalem Post ha aggiunto benzina al fuoco pubblicando informazioni in base alle quali si ritiene che oltre un terzo dei 124 ostaggi ancora detenuti a Gaza dal 7 ottobre sarebbero di fatto deceduti: 43 persone.

A tali fughe di notizie il portavoce dell’esercito ha reagito con una dura smentita accusando le fonti di tormentare inutilmente le famiglie degli ostaggi già drammaticamente provate. A sostegno delle famiglie hanno manifestato anche gli studenti universitari che, accusando il governo di essere responsabile della morte degli ostaggi, hanno minacciato di intraprendere uno sciopero se Israele non firmerà l’accordo attualmente sul tavolo delle trattative.

IN UN’INTERVISTA rilasciata alla radio Matan Vilnai, politico ed ex generale dell’esercito israeliano ha confermato anche la possibilità teorica che Hamas abbia trasferito degli ostaggi in Egitto attraverso i tunnel.

Una giornata soffocante insomma quella di ieri, conclusasi con le dichiarazioni del capo di stato maggiore Herzi Halevi che, nel corso della sua visita al nord, ha fatto intendere che a fronte degli ultimi sviluppi una guerra con il Libano potrebbe essere questione di giorni. «Israele – ha detto Halevi – è pronta ad attaccare».

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