È tra gli studenti e le studentesse turche che l’opposizione alle politiche della coalizione di governo, Akp e Mhp, trova spazio e voce. Dopo la sollevazione del campus di Bogazici, a Istanbul, contro il rettore imposto dal presidente Erdogan (ha perso: a metà luglio il passo indietro con la revoca della nomina di Melih Bulu), stavolta il focus della protesta si sposta dal piano più strettamente politico a quello economico e sociale. Parte da una necessità: il diritto alla casa.

Da dieci giorni nei parchi pubblici del paese sono comparse le tende: dentro ci dormono degli universitari, parte della neonata piattaforma Movement of the Unsheltered. Il numero di tende e studenti è via via aumentato, insieme alle città coinvolte (11, tra cui Istanbul, Ankara e Smirne) e la mobilitazione si è allargata a tutti i cittadini con la chiamata alla «protesta di mezzanotte».

Proteste che la stampa locale ha definito «calme», ma che in diversi luoghi, da Eskinsehir al parco Ilhan Erdost ad Ankara, si sono tradotte nell’intervento della polizia, che ha portato via le tende con la forza e ha arrestato almeno 15 persone. Ad Adana gli studenti presenti sono stati schedati dagli agenti.

Manifestano contro l’aumento insostenibile degli affitti (+51% a Istanbul, + 32% ad Ankara, +31% a Smirne, secondo una ricerca dell’università Bahcesehir) e contro la carenza di dormitori per gli studenti.

E questa è solo una media: avvicinarsi fisicamente ai campus è pressoché impossibile, se nei quartieri storicamente meta dagli studenti come Rumeli Hisari (quello della Bogazici) gli affitti sono saliti del 300%.

Una realtà condivisa con il resto della popolazione: secondo un sondaggio di Aksoy Research reso noto domenica, il 96,5% degli intervistati ritiene gli affitti alti o troppo alti.

Sono troppi duecento dollari al mese per una casa condivisa, in un paese alle prese con una dura crisi economica camuffata dal governo con tensioni belliche in giro per il Mediterraneo.

Ma il problema, dicono i ragazzi, è insormontabile visto che di spazi nei dormitori – sia universitari che privati – non se ne trovano. E se ci sono costano troppo se si pensa che il salario minimo in Turchia non supera le 2.900 lire, circa 330 dollari, e che ad agosto il tasso di inflazione ha raggiunto il 19,25%.

«Vogliamo sussidi per l’affitto – dice a Middle East Eye Mert Olcay Aksay, membro del sindacato degli studenti – Riteniamo che il costo degli affitti debba essere supervisionato dallo Stato. E ovviamente vogliamo più dormitori pubblici vicino alle università».

«Molti proprietari non sono stati in grado di farsi pagare gli affitti durante la pandemia – spiega ad al-Monitor uno studente di chimica della Bogazici, Akim – Ora vogliono rifarsi chiedendo a noi studenti delle cifre ridicole».

E se c’è chi prova a sostenere la battaglia per la casa aprendo le porte della sua (come la scrittrice di libri per bambini Ceren Kerimoglu), anche la politica si è accorta di avere un problema. La questione era stata affrontata subito dallo stesso presidente Erdogan che, dopo aver promesso di «seguire la cosa», domenica 19 settembre precisava che da quando al potere c’è lui i dormitori sono aumentati, da 190 a 769, insieme alla capacità, da 182mila posti a 720mila.

Ma lo scorso sabato, a una settimana dall’inizio della mobilitazione, ha cambiato registro: «State mentendo – ha detto agli studenti – La vostra vita è una bugia. I nostri dormitori ne sono la prova».

Cavalca invece la protesta il partito repubblicano, il Chp, opposizione all’Akp di Erdogan e amministratore del comune di Istanbul. Deputati e membri della municipalità si sono fatti vedere tra le tende e hanno dato qualche numero, smentendo la presidenza: con un numero di iscrizioni aumentato di sette volte dal 2002 (da 1,5 milioni agli attuali 8,2) meno del 10% degli universitari trova posto nei dormitori statali. Solo due le strutture costruite negli ultimi due decenni a Istanbul.

Si investe altrove, dicono i giovani: «I fondi sono girati sempre a fondazioni pro-governative», dice all’agenzia turca Bianet Ece Koroglu (Youth Movement). Una politica ormai nota, marchio di fabbrica dell’Akp che negli ultimi anni ha redistribuito ricchezze a suon di appalti e donazioni alla ristretta cerchia che si muove intorno a Erdogan.