La Convenzione sul genocidio, il crimine dei crimini, impone a tutti gli Stati di prevenire atti che potrebbero essere qualificati come tali. Se uno Stato si adopera attivamente con assistenza militare o altre forme di sostegno, esso potrebbe essere accusato di complicità nel genocidio. Tutto ciò emerge dalla Convenzione del genocidio del 1948, che l’Italia ha ratificato. Le disposizioni di tale convenzione devono essere considerate come norme generali, che si impongono a tutta la comunità internazionale, aventi un carattere inderogabile.

L’inosservanza dell’obbligo di prevenire un genocidio, e il divieto di assistere una Stato sospettato di compiere atti genocidiari, sono anche fondati su norme costituzionali: il ripudio della guerra proclamato dall’art. 11; l’osservanza del diritto internazionale consuetudinario, come indicato dall’art. 10; la tutela dei diritti fondamentali degli individui.

Vi sono anche norme più specifiche che intimano di non fornire assistenza militare a Stati che plausibilmente pongano in essere atti genocidiari.

L’Italia ha vietato la fornitura di armi a Paesi nei quali è in corso un conflitto armato in contrasto con i principi della Carta delle Nazioni Unite, ovvero che non rispettino l’art. 11 della Costituzione, ovvero che violano gravemente le convenzioni internazionali sui diritti umani. Si tratta della legge 185 del 1990. Una legge che ha un alto valore morale, ma che incontra l’opposizione delle imprese che fabbricano armi.

Alla luce di questo chiarissimo quadro normativo, sorprende che il Tribunale di Roma abbia respinto il ricorso di un cittadino palestinese residente a Gaza, chiedendo che lo Stato italiano interrompa l’esportazione di materiali bellici verso Israele, vieti l’uso delle basi in Italia per operazioni militari a Gaza, riprenda i finanziamenti all’Unrwa e agisca a livello internazionale in modo da evitare di incorrere in rischi di complicità in genocidio e in crimini di guerra e contro l’umanità commessi dall’esercito israeliano a Gaza.

Il ricorrente, Salahaldin Abdalaty, ha affermato che l’intervento militare israeliano mette a repentaglio l’incolumità dei suoi congiunti rimasti nella Striscia, nonché rilevato la sistematica distruzione della sua comunità e di qualsiasi struttura funzionale alla vita quotidiana (“domicidio”, “urbanicidio”, “scolasticidio”).

Il ricorso era anche fondato su pronunce della Corte internazionale di giustizia. La Corte, infatti, in due ordinanze, ha definito “plausibile” la commissione di atti genocidari da parte di Israele e ha, successivamente, rigettato una richiesta di qualificare il trasferimento di armi a Israele da parte della Germania come plausibili atti di complicità nel genocidio sol perché la Germania ha presentato dati che evidenziavano un drastico taglio di forniture militari a Israele dopo il 7 ottobre.

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Le motivazioni del rigetto (ordinanza del 7 giugno 2024) appaiono francamente sorprendenti.

Queste si fondano sostanzialmente su una sorta di presunzione di non giustiziabilità dei crimini di guerra (dei rischi di genocidio). Assunto molto discutibile, dal tribunale affermato in base ad “un evidente difetto assoluto di giurisdizione” e dalla mancanza di “una norma di diritto a fondamento del ricorso”, concludendo pertanto in modo risoluto che “non compete all’Autorità giudiziaria sindacare il modo in cui lo Stato esplica le proprie funzioni sovrane”.

Si tratta di motivazioni inaccettabili, che evocano la ragion di Stato, e, cioè, l’insindacabilità assoluta degli atti di politica estera da parte governativa: una dottrina che non può aver cittadinanza nello Stato costituzionale.

La sovranità dello Stato trova un limite nelle norme costituzionali, in coerenza con il costituzionalismo, inteso come limitazione del potere e garanzia dei diritti. La presenza di norme costituzionali e internazionali che assicurano la centralità della persona e della sua dignità non può ridursi a mera ed illusoria retorica, ma richiede un presidio contro la loro violazione.

Una democrazia, che voglia continuare a definirsi tale, rinnega sé stessa e le norme fondamentali che la connotano, se di fronte ad un massacro come quello in corso a Gaza chiude gli occhi invece di ricorrere a tutti gli strumenti a sua disposizione per tutelare il rispetto dei diritti e dei principi che la contraddistinguono.

Le motivazioni del Tribunale di Roma sono fondate su un principio che purtroppo si va diffondendo non solo in Italia.

Un’analoga visione si intravede anche nella recentissima sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale ha stabilito la “semi assoluta” immunità del Presidente, sottraendolo, di fatto, al rispetto del diritto. Questa attrazione verso il potere assoluto, che sembra trovare eco nella sentenza della Supreme Court, così come, più modestamente, nella ordinanza del Tribunale di Roma, rischia di indebolire le ragioni del diritto internazionale e quelle del costituzionalismo che invece occorre salvaguardare per il bene della democrazia.

Alessandra Algostino
Gaetano Azzariti
Enzo Cannizzaro
Claudio de Fiores
Luigi Ferrajoli
Alessandro Somma