Non tutto ciò che è artigianale è bello e buono, ormai. Sierra Leone (Africa occidentale): come spiega un’inchiesta di «Mongbay», non è solo la pesca industriale a impoverire le risorse ittiche ma anche quella condotta da piccoli pescatori con pochi mezzi. In un tipico circolo vizioso. La difficoltà a trovare pesce aumenta metodi distruttivi (fra i quali le reti a maglia stretta stese da terra), distruggendo i cicli riproduttivi e drenando dal mare pesci troppo giovani. Le difficoltà economiche del paese, inoltre, attirano nel settore sempre più addetti. Le reti illegali sono facili da trovare e le leggi che le vietano sono difficili da applicare per diverse ragioni.

I pescherecci sono certo i grandi colpevoli (lo attesta un rapporto di «Transparency International» sulla pesca detta IUU – illegale, non dichiarata e non regolata), ma anche il 70% dei pescatori artigianali, che totalizzano il 66% della produzione annuale di pesci, usa pratiche illegali e distruttive.

Bloccarli è difficile, trattandosi di una delle poche forme di reddito alle quali fa ricorso chi non ha altro. Direttamente o indirettamente, sono 800.000 (il 10% della popolazione) i sierraleonesi che dipendono economicamente dal settore; questo conta, in termini di consensi elettorali. Così, il governo sierraleonese ha applicato la stagione di chiusura per il settore industriale così da far riprendere gli stock. Ma la stessa misura nella parte che avrebbe dovuto partire da maggio per la piccola pesca, è stata ritirata per la pressione politica. Anche gli sbocchi commerciali del pescato la dicono lunga sui danni della catena alimentare. Il pesce baby, estratto in quantità appunto dalle reti a maglie strettissime utilizzate proprio nei luoghi meno idonei, viene seccato e poi esportato come mangime per gli allevamenti di polli in Guinea. Altre tipologie, come l’ombrina, sono molto apprezzate in Asia.