In Palestina, memoria di una presenza silenziosa
Cultura

In Palestina, memoria di una presenza silenziosa

«IL GELSO DI GERUSALEMME» Per Feltrinelli Paola Caridi ripercorre «l’altra storia raccontata dagli alberi»
Pubblicato 26 giorni faEdizione del 17 settembre 2024

C’è sempre un albero. Nei ricordi e nei racconti di chi giunge nel Levante c’è sempre un albero. Spesso più di uno. A volte non è un albero, è un arbusto o un campo coltivato. Un essere vivente inanimato – i nonumani li chiama Paola Caridi – fa sempre da sfondo a una narrazione, un viaggio, un’avventura, una scoperta. Da sfondo o, ancora più spesso, da protagonista: che sia dove ha le sue radici, o dentro una cucina dove i suoi frutti si preparano a far danzare il palato, nell’esplosione di un sapore insolito, ma familiare.

C’è sempre un albero, e stupisce non averci pensato prima. C’è quando in un angolo di Palestina ci si sente a casa – «sembra la Puglia», «sembra l’Umbria» – o quando la prima volta si resta a bocca aperta perché il Levante è lì, a due passi, appena al di là del Mediterraneo, eppure l’immaginario europeo è irragionevolmente piatto e banale: deserto, sabbia, rocce, venti caldi.

E invece no, in un fazzoletto di terra convivono e si danno il cambio tanti habitat diversi, tante biodiversità, dal mare alla collina, dal deserto alle foreste del nord.

L’AMBIENTE non è uno sfondo, o una coreografia. È parte integrante delle storie e della storia. E allora leggere Il gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi significa davvero addentrarsi in un manifesto di botanica politica. Scritto dalla giornalista e autrice Paola Caridi, edito da Feltrinelli (pp. 160, euro 17), ricorre ai ricordi personali e alla leggenda, agli archivi e all’attualità per provare a raccontare la storia del Medio Oriente dal punto di vista di chi c’è e c’è sempre stato, silenzioso ma inevitabile, sfruttato, servito, amato o perduto.

Nei complessi equilibri regionali la flora ha un ruolo, anzi ne ha tanti: strumento di propaganda sionista agli inizi del Novecento (il deserto da far fiorire), ancòra a cui aggrapparsi per mantenere un legame con la propria terra (le arance di Giaffa nell’immaginario dei rifugiati palestinesi e l’appropriazione successiva dello Stato di Israele, a dire «noi possediamo questa terra»), bacino di sfruttamento del colonialismo europeo (i gelsi libanesi e la catastrofe annunciata), alleato inconsapevole della rimozione (i pini importati dall’Europa dal Jewish National Fund per assecondare il gusto del nuovo arrivato e occultare il peccato originale, la distruzione dei villaggi palestinesi).

Nel caso palestinese è la memoria di una presenza, lo è la flora in sé ma lo è anche il modo in cui si è intrecciata alle vite delle persone, fin dall’antichità assecondata perché fornisse l’opulenza dei suoi frutti. La rete idrica di Battir, meritevole del riconoscimento dell’Unesco, sta là a testimoniare l’equilibrio con la terra, come i giardini in miniatura che spuntano sui terrazzi nelle viscere dei campi profughi stanno a testimoniare il sollievo antico di uno spazio verde, ampio e senza confini.

CARIDI, profonda conoscitrice della regione, dove ha vissuto per anni, ci regala una piccola perla, inusuale e inattesa, un viaggio storico e politico dalle tinte fosche ma che non tace la dolcezza: la bellezza che emerge dalle pagine, il colore e il sapore del nonumano che è sempre lì, presente. Testimone silenzioso o quieto alleato, quando segnala la vita che fu. Come i fichi d’india: vecchie linee di confine, continuano a crescere nei villaggi palestinesi svuotati con la Nakba e guidano alla scoperta dei resti di case e piazze. O come i sicomori alla cui ombra dolce tante storie sono state narrate e trasmesse; o lo za’atar, il timo della tradizione culinaria, la cui raccolta è una sfida ai divieti posti dalle autorità israeliane, perché a volte basta un sapore o un odore per sentirsi a casa propria.

Il libro di Paola Caridi è un atto politico in un periodo di buio della ragione, una sfida al colonialismo che fu e che è, che come Israele modifica i luoghi per piegarli alla propria immagine o che come quello europeo dei secoli scorsi impone monocolture feroci o si impossessa della terra battezzando a proprio gusto i nonumani. Come se un nome non ce l’avessero già. Sono parte della famiglia.

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