La “squadra degli operai” è vicina, vicinissima al ricco e potente Bayern Monaco. L’Union Berlin, secondo in classifica in Bundesliga a due punti dal colosso bavarese – sponsorizzato da Adidas e vicino alle politiche governative – dopo quattro vittorie consecutive, è conosciuto anche come l’Unione di Ferro.

Un soprannome che è arrivato dalla sua tifoseria: operai, fabbri delle fabbriche di metalli del quartiere Kopenick, uno dei meno opulenti (eufemismo) di Berlino, che fino a trenta anni vedeva sfrecciare, si fa per dire, le rumorose Trabant, dette anche Trappi, le auto comuniste con il nome ispirato allo Sputnik.

È stata la squadra del Muro. La squadra che si è contrapposta alla Dynamo Berlino, tra gli anni ‘50 e ‘80, società guidata da Erich Mielke, capo della polizia repressiva tedesca.

L’Union ha incarnato lo spirito della DDR: la squadra anti sistema, assieme al St.Pauli, con cui è gemellata. Un club alternativo, espressione della sinistra tedesca, orgogliosamente anti razzista, vicino ai più deboli. Allergico al potere, allergico al calcio infiltrato dai grandi capitali del private equity, delle multinazionali. Un inno al calcio romantico, ora vintage. Ci gioca, tra gli altri, anche l’ex sampdoriano Thorsby, uno dei (pochi) calciatori che si è impegnato in prima persona per la tutela dell’ambiente.

Sugli spalti dello stadio dell’Union, l’Alten Forsterei di Kopenick, a proposito di vintage, si notano ancora frammenti della controcultura punk e hippy. Il punto più alto si è raggiunto nel 1998: Nina Hagen, leggenda del punk mondiale, ha composto l’inno del club, che si ascolta allo stadio prima dell’inizio delle gare di campionato.

Negli ultimi tre anni il modello Union si è affermato in Europa. Poche risorse, progetto tecnico che comunque cresce. Un modello unico: i tifosi si sono praticamente costruiti da soli lo stadio: pochi soldi in cassa, in duemila si sono messi sulle impalcature, circa 140 mila ore di lavoro per garantire l’omologazione dello storico impianto di casa.

Sempre la tifoseria dell’Union – gli Eisern Union, che si traduce come Unione di ferro – negli anni si è segnalata per iniziative originali che hanno tenuto in vita il club. Nel 2004 hanno addirittura venduto il loro sangue alle emeroteche degli ospedali, per donare il ricavato all’Union, per l’iscrizione alla Bundesliga.

La storia non è stata sempre così benevola. Anzi. Diversi fallimenti nella prima parte del ‘900, in mezzo una finale nella Coppa della Germania Est e una vittoria della Gauliga Berlin-Brandenburg, la massima competizione calcistica durante il regime prussiano. Anche l’obbligo a cambiar nome: Hitler impose nuove regole e denominazioni alle società sportive, compreso l’Union, squadra in apparenza senza storia e senza identità. Eppure quelle radici dure e profonde, aggrappate ai sobborghi di Berlino, restano intatte, anzi sono a un passo dalla vetta della Bundes.

A Natale hanno festeggiato in trentamila nello stadio, intonando canzoni sulle festività. Potrebbero festeggiare di nuovo a maggio. Il titolo nazionale, o l’ingresso in Champions League, una specie di manna per i conti. Anche se quel modello non piace e mai piacerà.