La percezione del rischio climatico in Europa è relativamente bassa, ogni tanto si alza se si verifica un evento estremo. Abbiamo avuto ondate di calore nel 2003, nel 2010, nel 2016, e quest’anno. È ora di darsi un approccio sistematico, coerente, continuo, non è più possibile rincorrere le emergenze». Bettina Menne, medico dell’Oms specializzata in sanità pubblica e coordinatrice degli investimenti per la salute in Europa, è tra le autrici di un capitolo dedicato a cambiamenti climatici e salute del VI Rapporto IPCC.

Dottoressa Menne, il sistema sanitario italiano è attrezzato per affrontare le sfide che vengono dal caos climatico?

In teoria un paese come l’Italia sì, potrebbe essere attrezzato perché ha avuto un sistema socio-sanitario diffuso sul territorio. Quindi, dovrebbe essere possibile ripristinarlo, ma bisogna vedere quanto sia ancora attivo nelle varie regioni. Credo che la pandemia abbia insegnato quanto sia importante la presenza dei servizi non solo sanitari, ma ripeto, socio-sanitari: penso per esempio a figure come il medico e l’infermiere di comunità. Partirei da un esempio positivo, come il sistema di previsione delle ondate di calore messo a punto dalla Regione Lazio e poi esteso a tutto il territorio italiano: potendo prevedere l’evento, i medici di base vengono allertati per assistere le persone più vulnerabili, come gli anziani. Non basta promuovere la salute, serve protezione sociale.

Sono possibili misure di prevenzione sulle malattie che possono essere innescate dai cambiamenti climatici?

Direi che ogni intervento per proteggere la salute dipende da misure di prevenzione. Prima identifichiamo un rischio, prima possiamo intervenire. Nel rapporto IPCC abbiamo fatto un’analisi degli NDCs, cioè i piani di mitigazione e adattamento elaborati dai singoli stati in base all’Accordo di Parigi: è interessante notare che dei 160 che abbiamo esaminato, solo 110 includono anche interventi sulla salute e sono prevalentemente di stati africani, asiatici e sudamericani, ma pochissimi sono quelli europei. Però anche in Europa sono necessari interventi per adattare le infrastrutture sanitarie, perché siano abbastanza fresche d’estate, al sicuro dal pericolo di inondazioni o incendi. Inoltre, tra le misure di adattamento ci deve essere un capitolo sulla pianificazione sanitaria: gli effetti sulla salute dei cambiamenti climatici devono diventare una parte integrante del curriculum formativo degli operatori sanitari. Ma finché gli NDCs vengono elaborati dai ministeri dell’Ambiente o dell’Economia, e non includono quello della Sanità, si lavorerà sempre a compartimenti stagni.

Come far crescere questa consapevolezza? Gli allarmi lanciati dalla comunità scientifica non sono certo mancati.

Direi che è fondamentale il ruolo dei media. Io credo che servirebbero gruppi di lavoro che includano giornalisti a fianco di medici, climatologi, fisici, politici, in modo tale che possa essere data un’informazione corretta, affinché si crei una vera comprensione del problema, con degli approfondimenti specifici. Va detto e ripetuto quanta acqua si deve bere, cosa si deve mangiare, come ci si deve vestire, come raffreddare la casa e perché: il concetto di rischio attuale non viene comunicato bene e la sua percezione è relativamente bassa.

Sia il Rapporto IPCC che il documento di The Lancet si occupano anche di salute mentale in relazione ai cambiamenti climatici. Quali sono i rischi maggiori?

Ovviamente un evento estremo o una condizione di stress prolungata può aggravare chi è già affetto da malattia mentale. C’è poi il rischio di aumento dell’ansia, che è un fattore molto individuale. Con il Covid abbiamo visto insorgere condizioni di insicurezza al pensiero del futuro, paura di ammalarsi e isolamento. Ma abbiamo anche assistito a disinformazione, che ha aumentato il caos quando era necessaria la massima chiarezza. Inoltre, i servizi sanitari devono saper affrontare le varie forme di malattie mentali, e provvedere un servizio adeguato, dalla ansia ai disturbi post traumatici nelle persone che sono state esposte ad eventi estremi, a gestire gli impegni di lavoro, a concentrarsi a scuola. Un particolare riguardo va dato ai nostri giovani, che sono quelli maggiormente esposti nel futuro al cambiamento climatico.

La salute delle donne è più a rischio nel caos climatico?

Dipende sempre dalla vulnerabilità. Le donne africane o dei paesi asiatici che si occupano a tempo pieno dei figli, che procurano l’acqua e il cibo alla famiglia, sono maggiormente a rischio, perché il loro sostentamento dipende dall’agricoltura, dall’acqua, dal cibo a disposizione. In Europa, invece, le più esposte sono le donne più anziane vulnerabili alle ondate di calore e le donne in gravidanza: sappiamo che il numero di aborti aumenta durante le ondate di calore. E poi c’è un altro problema: la scarsa inclusione delle donne nelle scienze del clima: questa minore rappresentanza si riflette nelle valutazioni che vengono fatte sui cambiamenti climatici, sui loro possibili effetti sulla salute e sulle soluzioni da proporre.

In che modo la mitigazione delle emissioni può migliorare la salute pubblica?

In OMS facciamo lobby per una società “a bassa intensità di carbonio” che avrebbe altissimi benefici per la salute. Ecco alcuni esempi: intanto, l’accesso all’energia deve essere equo e giusto, per tutti. Se tutti ci muovessimo di più a piedi o in bicicletta e se seguissimo una dieta con meno carne recupereremmo anni di vita più sana. Idem se le nostre città fossero più verdi. Anche nella gestione dei servizi sanitari dobbiamo imparare a tagliare emissioni di CO2.

L’impatto dei cambiamenti climatici può mettere a rischio i progressi fatti dai sistemi sanitari globali negli ultimi decenni?

Non tutti i progressi, però la crisi climatica sommata ad altre crisi sta mettendo seriamente a rischio il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.