Ieri con altri 20 arresti eseguiti dall’esercito israeliano, il numero dei detenuti palestinesi in Cisgiordania dal 7 ottobre è arrivato a 9.300, ai quali si aggiungono gli arresti compiuti a Gaza (non si ha un numero esatto). Tra le persone fermate anche Aziz Dweik, presidente del Consiglio legislativo palestinese, da anni inattivo. Tra gli arrestati si contano anche 640 minori che, come riporta il Palestinian Prisoners Club, subiscono trattamenti disumani e torture.

Agli arresti vanno di pari passo le uccisioni con l’ultima vittima ieri a Qalqiliya, dove l’esercito israeliano in un’incursione ha ucciso un ragazzo di 15 anni. Dal 7 ottobre gli uccisi nei raid dell’esercito e negli attacchi dei coloni in Cisgiordania sono più di 540, più del doppio delle uccisioni avvenute nello stesso periodo dell’anno precedente.

PROPRIO mentre in piazza della Natività a Betlemme uno sparuto gruppo di attivisti e parenti dei prigionieri tengono in mano le foto dei loro cari incarcerati e chiedono giustizia, un giovane di 28 anni, Abodallah, racconta che dal 7 ottobre i raid dell’esercito si sono intensificati: «Il 25 dicembre gli israeliani sono venuti a casa mia e hanno distrutto tutto, cucina, bagno e letti. Si sono portati via mio zio, un vecchio malato, e dal quel giorno non abbiamo più avuto notizie. Lo hanno arrestato perché non aveva la targa alla moto e stava facendo le pratiche per averla. Sono 7 mesi che non abbiamo notizie, non possiamo sapere nemmeno se è vivo».

Come Abodallah, che vive nel campo profughi di Dhiesheh a Betlemme, anche Ali che si trova nel campo di Aida racconta che «spesso i soldati israeliani vengono nei campi, uccidono e arrestano le persone senza motivo, solo per esercitarsi».

Già ad aprile un documento del Consiglio per i diritti umani dell’Onu aveva sottolineato che «dall’inizio del genocidio in corso a Gaza, le forze di occupazione israeliane hanno aumentato gli arresti arbitrari, accompagnati da condizioni carcerarie terribili e da pratiche di maltrattamento e tortura».

Una volta arrestati, inizia l’inferno per i detenuti palestinesi. Mercoledì Khaled Mahajneh, avvocato del giornalista palestinese Mohammed Saber Arab, è riuscito a incontrare il suo assistito per la prima volta dopo 100 giorni di carcere nella base militare israeliana, oggi usata come centro di detenzione, di Sde Teiman nel deserto del Negev. Arab non era a conoscenza della sua posizione fino a che non gli è stata rivelata dal suo avvocato.

La testimonianza che il detenuto ha riportato è «al di là di ogni immaginazione», ha detto Mahajneh. Il giornalista ha parlato di morti, torture, abusi e stupri subiti dai prigionieri, tenuti bendati e ammanettati costantemente. I carcerati non possono parlare tra di loro, hanno un minuto a testa per l’uso del bagno, dormono sul pavimento senza nulla e sono costantemente circondati da cani poliziotto: se qualsiasi delle regole imposte viene trasgredita le punizioni sono terribili. Da quanto appreso da Mahajneh, ci sarebbero stati diversi casi di stupro punitivo perpetrati davanti agli altri detenuti.

A MAGGIO erano uscite notizie di trattamenti disumani nei confronti dei prigionieri a Sde Teiman, ma quella volta a denunciare alla Cnn erano stati dei cittadini israeliani che lavoravano nel centro di detenzione.

Le foto fornite dagli whistleblower ritraevano i detenuti bendati e ammanettati dietro il filo spinato, «gli hanno tolto tutto quello che ricorda un essere umano», avevano dichiarato le fonti alla Cnn. La scorsa settimana il New York Times ha riferito che Israele sta portando avanti una politica di tortura sistematica nella base militare. Un agente della base ha riferito al Nyt che da ottobre «almeno 25 detenuti sono morti nel centro di Sde Teiman».