Il Tribunale di Trapani dice di aver perso i documenti che avrebbero aiutato Alaji Diouf a smontare l’accusa di essere uno scafista, accusa che lo ha costretto in carcere per 7 anni. Il giovane senegalese è arrivato in Italia nel 2015 con un barcone con oltre 100 persone a bordo. Una volta approdati, un uomo, che non aveva viaggiato nello stesso gommone di Alaji né lo conosceva, gli punta il dito su richiesta delle forze dell’ordine. Un gesto che basta alla magistratura per riconoscerlo come la persona che ha guidato l’imbarcazione, lo scafista. E questo equivale all’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione), aggravata nel suo caso per la morte a bordo di 8 persone e per aver agito «per profitto».

Al momento dell’interrogatorio Alaji parla la lingua mandinga, ma su indicazione del giudice, l’interprete traduce solo in inglese, francese e arabo. «Se avessi parlato l’italiano che parlo adesso, non sarei finito in carcere» dice il giovane che ora, dopo aver scontato 7 anni con un’accusa non verificata e basata sulla testimonianza di una singola persona, vuole giustizia. È tra le voci della campagna Capitani Coraggiosi, un’iniziativa dell’organizzazione Baobab che punta i riflettori sulle accuse di favoreggiamento all’immigrazione clandestina e le conseguenti condanne per aprire un dibattito sulla figura dello scafista. Insieme all’organizzazione, Alaji vuole tentare una revisione della condanna.

Dalla scorsa estate Baobab sta provando a ricostruire i fatti chiedendo alla Questura e al Prefetto di Taranto un elenco delle persone sbarcate e dei rispettivi centri di accoglienza. La Prefettura di Taranto ha replicato che la richiesta è «poco efficace» in luce degli otto anni trascorsi dall’evento, una risposta che inizia a insospettire l’avvocato Francesco Romeo e Alice Basiglini, responsabile della campagna, due figure che seguono Alaji in questo percorso. Il prefetto ha poi interpellato il Garante per la Privacy e l’avvocatura Distrettuale di Lecce in merito alle corrette modalità di condivisione della lista richiesta dall’Ong, per verificare un possibile mancato rispetto del diritto alla riservatezza dei testimoni se la lista fosse condivisa.

«Ma il diritto alla privacy non può mai prevalere sul diritto di tutte e tutti alla difesa, ovvero sul diritto di Alaji di chiedere l’annullamento della sua condanna» la replica degli attivisti di Baobab. Poi è accaduto l’inaspettato: la prefettura ha risposto che «a seguito di ripetute ricerche anche negli archivi di deposito di questa Prefettura, non sono stati rinvenuti gli atti relativi allo sbarco di migranti avvenuto a Taranto in data 20/10/2015». Una versione diversa rispetto alla prima volta in cui sono stati richiesti, ma soprattutto non ci sono tracce di sparizione di quei documenti nella data dello sbarco. Alaji e Baobab sono decisi a continuare il giudizio di revisione per annullare la sua sentenza di condanna, il primo in Italia.