Il giudice distrettuale Zafar Iqbal ha annullato ieri i mandati di arresto a carico del presidente del Tehreek-e-Insaf (Pti) Imran Khan nel caso Toshakhana per cui doveva essere incriminato e gli ha concesso di tornare a casa dopo aver segnalato la sua presenza fuori dal complesso giudiziario di Islamabad.

Questo in sintesi il resoconto di una giornata di apparente ordinaria procedura giudiziaria pachistana dove un imputato si reca in tribunale per un’udienza che poi viene rinviata.

MA LA STORIA che da mesi è in ballo tra il presidente del Pti, già premier sfiduciato dal parlamento e personaggio in cima ai gradimenti popolari, è qualcosa di più che un’ordinaria vicenda di avvocati, mandati, giudici e udienze.

Anche perché ogni volta che il giorno di una qualsiasi udienza si avvicina scoppia il finimondo com’è successo anche ieri davanti alla corte di Islamabad. Finimondo tra suoi seguaci e la polizia che si è ripetuto davanti alla sua casa di Lahore dove, dopo la sua partenza per Islamabad, la polizia ha fatto un’incursione per perquisirla e si è scontrata con chi era rimasto a difenderla.

MA NELLA VICENDA, dove è abbastanza chiaro che Khan si fa beffe dei tribunali dei quali non ha evidentemente alcuna fiducia, giudici e politici, poliziotti e soldati ce la mettono tutta per fare di Imran un capro espiatorio e la vittima di quel complotto ai suoi danni che lui ha sempre denunciato e che, nelle sue parole, è stato ordito da gente che non solo lo vuole fuori dall’agone politico: lo vuole morto. Ma cominciamo dal caso in questione.

Il termine Toshakhana indica un dipartimento di proprietà del governo pachistano e un insieme di disposizioni che regolano la proprietà, la conservazione o la possibile alienazione dei doni ricevuti da membri del parlamento, ministri, presidente e primo ministro.

Imran è accusato di aver ignorato le regole (che spesso consentono di acquisire i regali per pochi spiccioli) e dunque di appropriazione indebita. Le sue cause giudiziarie non si fermano lì: riguardano anche le ingiurie a una magistrata e persino la violazione delle leggi sul terrorismo.

Il sapore «politico» delle accuse è così evidente – né il rimpallo con la politica fa uscir bene l’indipendenza delle toghe pachistane – che sul caos è intervenuto persino Zalmay Khalilzad, il potente ex inviato americano in Afghanistan: ha consigliato al governo di non aggiungere benzina sul fuoco aggravando la crisi politica che imperversa.

LA SETTIMANA di fuoco inizia martedì scorso quando la polizia di Lahore cerca di arrestare Imran Khan, per il quale c’è un mandato in nome del fatto che non si è mai presentato in tribunale e le eccezioni dei suoi avvocati, che bombardano di contestazioni tutte le sedi giudiziarie che si occupano dell’ex premier, sono state tutte rigettate.

Gli agenti però si trovano davanti una barriera umana e l’arresto mercoledì viene sospeso. Lo stallo si risolve venerdì quando il tribunale della capitale concede la garanzia che Imran non sarà arrestato sempre che sabato si presenti in tribunale.

Alla fine Khan si presenta ieri a Islamabad ma con un codazzo di supporter che se la deve vedere con 4mila agenti schierati per impedire nuovi tafferugli. Che si ripetono davanti al tribunale.

«La situazione così com’è, l’udienza e la comparizione non possono procedere», ha detto alla fine il giudice Zafar Iqbal riferendosi agli incidenti tra polizia e seguaci di Khan fuori dal tribunale. E la partita la vince Imran: sia perché il giudice è costretto ad ammettere la sua presenza sia perché annulla gli ordini di arresto. Prossima udienza il 30 marzo.

LA VINCE ANCHE a Lahore: appena dopo la sua partenza, la polizia si dirige alla sua residenza e sfonda il cancello d’ingresso per potervi accedere. Ma un altro manipolo di sostenitori fa muro e si assiste all’ennesima battaglia mentre il capo del Tehreek-e-Insaf condanna il raid effettuato con sua moglie «sola a casa». Altro colpo a effetto del giocatore di cricket prestato alla politica.