La voce di Bani Khoshnoudi arriva da Parigi dove si è fermata adesso, dopo un lungo tempo in Messico, ma con una figlia piccola, dice, era un po’ difficile anche se lì ha mantenuto progetti da realizzare. Filmmaker, artista, attivista Bani ha vissuto un po’ ovunque nel mondo seguendo la sua curiosità e il bisogno irrequieto di conoscere realtà diverse. La sua famiglia ha lasciato l’Iran nel 1979, dopo l’arrivo di Khomeini, lei è cresciuta in America, ha studiato a Austin negli anni ’90 di Linklater e presto il cinema è entrato nella sua vita. Finiti gli studi si è spostata in Europa, a Parigi, ha iniziato a lavorare con un collettivo che supportava i migranti contro le politiche di Sarkozy allora ministro dell’interno. Quando il campo di Sangatte è stato chiuso ha realizzato Transit (2004) ispirato alle storie di chi aveva incontrato in quel luogo.

Nel frattempo dopo 22 anni era tornata per la prima volta a Tehran, la sua città natale che diventa protagonista del suo film Un peuple dans l’ombre. E poi? Poi è arrivato il 2009, l’anno della rivolta contro Ahmadinejad e le elezioni che lo confermarono presidente dell’Iran secondo l’opposizione «truccate»: Bani Khoshnoudi filma in strada i giorni prima delle elezioni e le proteste: manifestazioni, discussioni, entusiasmo, rabbia finché non viene uccisa Neda Agha Soltan e lei decide che deve andare via di nuovo. The Silent Majority Speaks – il film – per molto tempo ha circolato clandestinamente e con lo pseudonimo di The Silent Collective. Racconta quelle giornate e anche le rivolte e le rivoluzioni in Iran nel corso di un secolo, si interroga sul ruolo delle immagini del passato nel presente, sull’importanza della memoria e del desiderio collettivo, sulla censura politica e religiosa e sulle strategie di autocensura. Fino al 4 gennaio è visibile sul sito another-screen.com che riunisce i lavori di artiste iraniane – con una donazione in favore di Ong che aiutano in Iran i militanti condannati a morte, le associazioni Lgbtq+ e per l’acquisto di Vpn con cui aggirare la censura di internet.

Oggi Bani Khoshnoudi continua il suo lavoro di resistenza con le immagini archiviando tutte quelle che raccontano la rivolta in corso. Lei preferisce chiamarla «rivoluzione», Dice: «Penso che sia importante riconoscerla come tale, dà maggiore forza a questo movimento».

Ciò che sta accade in Iran ha dato vita a diverse riflessioni critiche che riguardano la narrazione del Paese e di questa rivoluzione. Sul sito che raccoglie i vostri film c’è chi sottolinea come sulla questione del velo l’occidente sembra in imbarazzo, quasi che condividerne la critica possa essere letto in chiave di islamofobia. Cosa ne pensi? È reale questa difficoltà occidentale, e se sì da cosa dipende?
Sono nata in Iran, cresciuta negli Stati uniti, ho vissuto in Europa e infine sono tornata in Iran. Dopo l’Onda verde sono andata via di nuovo e ho scelto il Messico. Se parlo di questa mia esperienza è perché a quarantasei anni, da persona politicizzata, che lavora sulle migrazioni in Francia e in America, mi permette di capire che i discorsi politici dell’accademia vanno oggi verso un cambiamento del linguaggio e un paradigma che investe le questioni dell’identità. In Europa e in America riguarda il rapporto con il colonialismo e l’imperialismo praticato in Africa e in Medio Oriente. L’obiettivo è decolonizzare il discorso e nella preoccupazione di una identità post-coloniale si confondono la Storia e le posizioni antimperialiste con le questioni identitarie. Si produce così una semplificazione che identifica per esempio il Medio Oriente con la religione musulmana vista come una forma di resistenza contro l’imperialismo: quindi o si è musulmani o si è favorevoli al colonialismo. Il fatto che numerosi intellettuali in Iran nel 1979 hanno aderito a questa posizione ha cancellato molte cose, a cominciare da una modernità che ogni Paese del Medio Oriente aveva attraversato e non solo in senso occidentale. L’islamizzazione – e vale anche nel caso di Israele e Palestina con la divisione alimentata da «o Hamas o nulla» – ha creato delle esclusioni giustificate da una lotta antimperialista fondata sull’unicità musulmana. In Iran c’erano invece cristiani, ebrei, pre-musulmani, buddisti che sono stati messi da parte. All’interno di questo processo il velo è diventato un emblema utilizzato in Iran e poi esportato fino a prendere un’altra ampiezza – va considerato anche il ruolo dell’Arabia Saudita e del waabismo, ma questo è un altro aspetto. Nel 1979 le donne iraniane storicamente avevano fatto molte conquiste. Le femministe hanno deciso però che non era importante battersi subito contro il velo perché Khomeini era visto come il salvatore dal dominio dell’occidente. I diritti delle donne sono stati messi in secondo piano e questo è stato un gravissimo errore perché ha permesso la formazione di una società di classi, separata, senza eguaglianza di diritti.
In occidente la destra estrema europea e americana ha strumentalizzato il velo per alimentare la paura della convivenza. Il fatto che sia divenuto un simbolo culturale – in un senso o in un altro – per me è assurdo visto che la sua esistenza rimanda a un’imposizione. L’Islam non è una cultura ma una religione che si incastra nella cultura. Torniamo così alla battaglia identitaria di adesso: chi si congratula del fatto che le donne indossano il velo in parlamento lavora per difendere dei valori anti-Islam. Ripeto, il velo non può e non deve essere il simbolo culturale delle vere musulmane. È molto violento che ti dicano come vestirti; nella mia famiglia ci sono alcune donne musulmane che indossano il velo e altre no, fa parte di una libera scelta e solo questo deve essere.

In che senso la trasformazione del velo in simbolo culturale è una difesa dei valori anti-Islam? E a proposito di scelte: proprio in Francia sono sempre più le giovani donne che si velano anche integralmente quasi che il velo rappresenti invece un riferimento identitario condiviso.
La propaganda dell’estrema destra che ne ha fatto il simbolo culturale di un attacco inaccettabile all’identità francese ha creato molte fratture. La realtà attuale è complessa: quelle famiglie che si sentono isolate, e al di là del velo, dai problemi di un post colonialismo – che in Francia non è forse ancora «post» – sono più influenzabili. I gruppi ideologici si servono dei malesseri, delle difficoltà per esercitare pressioni politiche – parliamo degli imam in certe moschee, dell’indottrinamento in rete. Ma da dove viene tutto questo, questa radicalizzazione integrale supportata da una forte ideologia? Torniamo alla questione delle politiche identitarie, che adesso negli Usa sono molto forti, e che esprimono in questa modalità un punto esagerato del capitalismo, un narcisismo secondo il quale ognuno si deve vedere in una certa maniera; dentro a queste narrazioni per le donne musulmane c’è lo hijab. Lo so che molti criticheranno ciò che dico, ma le donne iraniane sono finalmente riuscite a rompere il silenzio su questo mostrando che il velo è solo un pezzo di tessuto, e se è un simbolo lo è di una negazione, di codici e leggi feroci. Ogni ragazza è nata libera e non deve avere vergogna di mostrarsi. Con questa rivoluzione il velo può finalmente diventare qualcosa di personale. L’Iran ha avuto la storia che doveva avere da quando nel ’79 abbiamo pensato che l’«identità islamica» sarebbe stata la nostra forza anticolonialista. Grazie a questo il regime ha potuto esistere.

Quanto le immagini sono importanti per questa rivoluzione?
Penso che le immagini in generale, e il cinema, hanno ancora una grande potenza. Quando giravo The Silent Majority Speaks ero in strada a manifestare e pensavo continuamente alle immagini che portavo con me dall’infanzia; c’è una forza che ci lega al nostro passato nei canti, negli slogan, nelle immagini, che unisce le nostre battaglie nate sempre per la libertà, contro l’oppressione, l’autoritarismo. Oggi siamo al centoduesimo giorno di lotta in Iran e le canzoni che sento in piazza sono le stesse del Novecento, cambiano le parole ma rimane il ritmo. La rivoluzione si racconta attraverso le immagini che circolano per quanto è possibile in rete e permettono un’unità tra il territorio iraniano e la diaspora impegnata dopo il 2009 in un costante dialogo. Ci sono video estremamente potenti, che cercano di testimoniare al mondo ciò che sta accadendo. I più terribili sono quelli dei lutti, le madri che piangono le loro figlie e i loro figli esprimono una sofferenza che però non è solo pathos, è molto politicizzata. Siamo in un momento storico importante. Io sono atea e convinta che i monoteismi devono arrivare a una fine. Non è la religione che ci salverà ma sono i corpi, le persone, l’esuberanza, ciò che ci unisce.

Cosa ti aspetti che accadrà? Il mondo è molto attento e al tempo stesso un cambiamento in un Paese come l’Iran potrebbe preoccupare.
Tutto è possibile adesso anche se è vero che in Iran l’influenza dei Paesi stranieri è sempre stata rilevante, quando lo scià è andato via nel ’79 c’erano i britannici, i russi, gli americani. Oggi il potere dalla sua parte ha l’esercito, la polizia ma è vecchio, retto da uomini vecchi. Il popolo iraniano a questo punto può prendere le armi o simbolicamente portare questo potere al collasso. Da qualche settimana la gente sta ritirando i soldi dalle banche, il dollaro è aumentato del 40%; può durare anche degli anni, e in questo momento gli europei e gli americani sanno che non possono fare un guerra, persino Israele è molto silenzioso a riguardo. Però pure se l’interesse mondiale era di mantenere questo governo, loro hanno oltrepassato troppi limiti esibendo una violenza intollerabile. Questa rivoluzione per adesso è orizzontale, un po’ anarchica, non ci sono degli interlocutori ma quando ci saranno, se arriveranno delle figure a cui rivolgersi, i Paesi occidentali saranno pronti a intessere nuovi rapporti.

Anche se sei lontana dall’Iran stai pensando a un possibile lavoro su questo?
Dai primissimi giorni ho una pagina su Instagram, posto regolarmente immagini di una qualche rivolta accaduta in Iran che ho cominciato a archiviare nel 2019. I primi giorni di questa avevano tagliato internet, le immagini arrivavano lentamente, ora ogni giorno le archivio e le diffondo. Forse farò un film ma non mentre questo processo è in corso. Per adesso archiviare è più importante, l’archivio mi interessa perché pone degli interrogativi, non è mai una risposta. Nel caso dell’Iran c’è la necessità di una testimonianza per non dimenticare; credo che l’esistenza delle immagini ci permette di non ripetere certe barbarie compiute, anche se la storia dimostra spesso il contrario. L ‘invisibilità però permette alla violenza di non lasciare tracce, le tombe, le torture, la prigionia scompaiono. È un tema che mi interessa, e mi piace pensare che se questa rivoluzione esiste è anche perché le altre che l’hanno preceduta hanno trasmesso delle testimonianze del loro essere avvenute.