Due bombardieri cinesi e russi sono stati avvistati mentre sorvolavano le acque internazionali di fronte all’Alaska e dalle basi di Canada e Usa sono stati inviati i caccia nordamericani a controllare che non sconfinassero. «Non era un’operazione diretta verso stati terzi» ha dichiarato il ministero della Difesa cinese. «Non abbiamo rilevato minacce», fanno sapere dal Norad, il Comando di Difesa Aerospaziale del Nord America. Eppure qualcosa è successo, e non è un fatto da poco.

Ordinare ai bombardieri strategici di spingersi così vicino ai confini territoriali degli Stati uniti per «un pattugliamento aereo congiunto sul mare di Chukchi, sul mare di Bering e sulla parte settentrionale del Pacifico», come riporta il ministero della Difesa russo, vuol dire andare a stuzzicare il nemico dove si sente più sicuro, nella sua tana. Se non si considera l’attentato alle Torri Gemelle del 2001, che tecnicamente non è un atto di guerra, bisogna risalire a Pearl Harbor (1941) per trovare un attacco diretto al suolo statunitense. Da allora nessuno si è mai avventurato a quelle latitudini se non per quelle pratiche note come «posizionamento strategico» usate nella guerra fredda. La Nato installa le batterie di missili in Europa e allora l’Urss li sposta a Cuba, gli aerei spia e i satelliti di Washington sorvolano lo sconfinato territorio sovietico e gli Antonov fanno altrettanto in Europa occidentale e nel resto del globo. Ma negli ultimi 3 decenni questa logica sembrava relegata alle ordinarie operazioni di spionaggio internazionale e non più alla deterrenza, ovvero alla dimostrazione aperta delle proprie capacità. Spinte a unirsi da interessi differenti, una dall’allontanamento forzato dall’Occidente e dalle sanzioni derivanti dall’invasione dell’Ucraina, l’altra dalle aspirazioni alla leadership globale, Russia e Cina hanno trovato in questi ultimi due anni diverse convergenze e, soprattutto, un nemico comune: gli Usa. Ne sono ben consapevoli i vertici della Nato che all’ultimo summit di Washington hanno affermato chiaramente che la Cina è il nemico del futuro. Ma i problemi per l’egemonia statunitense potrebbero essere molto più imminenti.

Non si tratta di una minaccia esistenziale per gli Usa, sgombriamo subito il campo da equivoci di questo tipo. Come spiega chiaramente l’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri), gli Usa da soli rappresentano il 37% della spesa globale per gli armamenti. Ovvero, più di un’arma su tre prodotta nell’intero pianeta è pagata da Washington. Che questa sia destinata a uno dei numerosi sottoposti di Washington nel mondo oppure alla Difesa nazionale poco importa. Su tutte c’è la bandiera a stelle e strisce, che indica chi è il padrone. Tuttavia, fino a ieri questo dato di realtà bastava a scongiurare qualsiasi azione, non diciamo pratica, ma di lesa maestà. Il timore della reazione di Washington bastava da solo. Ora dobbiamo prendere atto che nonostante «l’ordine mondiale basato sull’egemonia americana», come dicono a Mosca, non sia affatto finito, perlomeno ha imboccato una strada piena di ombre. Se porterà al tramonto dell’ennesimo impero è presto per dirlo. In ogni caso la Cina lavora per accelerare l’arrivo di quel tramonto e la guerra in Ucraina le ha fornito un’arma inattesa ed efficace. Inoltre, la confusione politica interna agli Usa, alla vigilia di elezioni che influenzeranno la politica estera del Pentagono per i prossimi 4 anni, contribuiscono alla narrazione di un’egemonia ormai precaria, fiaccata da faide interne oltre che dagli eventi internazionali.

Il 14 luglio la marina di Pechino e quella di Mosca hanno iniziato un’esercitazione militare congiunta nelle acque dell’oceano Pacifico occidentale e settentrionale. Anche in quel caso Pechino ha dichiarato che «l’operazione non ha nulla a che fare con le situazioni internazionali e regionali e non intende prendere di mira una terza parte». Come ieri, nessun obiettivo ufficiale ma bisogna essere ciechi per non considerare che la Cina usa la Russia come sponda per inficiare lo strapotere degli Usa nel Pacifico e, ora, anche nei mari del nord. «Il Norad continuerà a monitorare le attività dei concorrenti in prossimità del Nord America e a rispondere alla presenza con la presenza» si è limitato a dichiarare il Comando nordamericano in un comunicato stampa.

Intanto, l’asse sino-russo si consolida anche grazie alle triangolazioni che permettono, tramite Honk Kong, di contrabbandare in Russia chip per uso militare prodotti negli Usa e sottoposti a sanzioni. Secondo il New York Times, «da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022, quasi 4 miliardi di dollari di chip soggetti a restrizioni si sono riversati in Russia da oltre 6.000 aziende», molte delle quali si trovano nell’ex porto franco cinese. Si noti che ieri il presidente ucraino Zelensky aveva dichiarato nel suo consueto videomessaggio alla nazione che la Cina aveva assicurato il ministro degli Esteri Kuleba, in visita ufficiale a Pechino da due giorni, che «non fornirà armi alla Russia». Poche ore dopo, riapparso misteriosamente a Honk Kong, Kuleba ha tuttavia confermato che la Russia sta usando la città per aggirare le sanzioni imposte dall’Occidente.