1970, Beverly Hills: dietro un inarrestabile flusso di gin tonic, la barba lunga e il cappello da cowboy brillano gli occhi azzurri di Dennis Hopper, il nuovo ragazzo d’oro di Hollywood che ha appena realizzato Easy Rider. Un tale successo da indurre gli studios a dargli carta bianca per il suo prossimo film – The Last Movie (Fuga da Hollywood) – che sta montando nel New Mexico proprio nei giorni in cui vola a Los Angeles per incontrare Orson Welles. Il regista che trent’anni prima era stato in quello stesso posto: sulla vetta di Hollywood, con un contratto che gli dava controllo assoluto per girare, appena 24enne, il suo primo film – Quarto potere. Lo stesso che avrebbe segnato la sua «caduta» e l’esilio dal cinema degli studios, dove spera di far ritorno con il progetto a cui sta cominciando a dare forma mentre conversa con Hopper, The Other Side of the Wind: il film «perduto» di Welles destinato a non vedere la luce fino a 33 anni dopo la sua morte, nel 2018, grazie al contributo di Filip Yan Rymsza, produttore e «creatore» anche di questo Hopper/Welles, presentato fuori concorso a Venezia, con il montaggio di Bob Murawski che ricava due ore e 10 di materiale da 5 ore di riprese.

UNA LUNGA conversazione girata dallo stesso Welles in 16 mm fra i due registi e attori, con la camera sul volto di Hopper senza mai restituirci il controcampo del regista di Quarto potere la cui voce inconfondibile echeggia però nella stanza in penombra, incalza di domande il giovane collega, a momenti quasi intimorendolo, altre volte cercando una reazione alle sue provocazioni. Insieme parlano di cinema – Hopper ama Antonioni, Welles notoriamente lo detesta: «L’avventura non mi stava piacendo neanche prima di addormentarmi» – in che modo dare forma alla storia che si vuole raccontare, al cinema stesso?

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Orson Welles

IL REGISTA di Easy Rider è in difficoltà perché non riesce a tagliare le immagini che ha girato, Welles dice di entrare in sala di montaggio «come un nemico» del suo film, «impaziente di tirare fuori le scene più belle». E poi Elvis, andato da Hopper a chiedere consiglio per recitare nel suo primo film: era convinto che tutto quello che accade sullo schermo fosse vero, e non sapeva come fare a picchiare una donna come previsto dalla sceneggiatura.
Ma nei loro discorsi c’è anche la violenza che lacera gli Stati uniti, le rivolte di quegli anni, la controcultura, le posizioni politiche di Hopper su cui Welles lo incalza sornione, prendendosi gioco del suo timore di dichiarare ciò in cui crede per paura di una persecuzione politica. Parole in cui si riflette anche l’America di oggi: «Credo che avremo presto un presidente nero, che sarà una buona strategia per continuare a tenerli nei ghetti», dice Welles con una dolorosa premonizione del mondo a venire. Il vecchio regista assume la posa del conservatore rispetto al nuovo che avanza, o del cinico disilluso davanti agli ideali del ragazzo che gli siede di fronte e che non si rivolge a «Orson» ma a «Jake», una prima incarnazione di quel Jake Hannaford – regista sul viale del tramonto – protagonista di The Other Side of the Wind. Ma è «realtà» o «finzione»?

QUANTO c’è del «vero» Welles nell’uomo che dietro la macchina da presa conversa con il giovane collega? Hopper cita Bob Dylan – «e chi è?» gli chiede Welles, che invece con Dylan condivide proprio le mille maschere, anche quelle mai indossate come nel progetto «maledetto» di Don Chisciotte. D’altronde tre anni dopo girerà F for Fake: «tutto quello che ho raccontato è falso» svela nel finale, e già nel «documentario» girato con Hopper non è certo una qualche verità a interessarlo – «la realtà è ben poca cosa rispetto alla magia» gli dice. Ma anche la magia non è che il trucco di un illusionista – come quello brevemente impersonato da Welles in F for Fake – il gioco di un regista in grado di creare un momento di grande cinema anche solo riprendendo un volto e la luce che lo illumina, «conducendo» una conversazione. Hopper si presta al gioco e lo intuisce, nonostante la sua risata nervosa tradisca la reverenza nei confronti dell’uomo che ha di fronte, e che desidera impressionare. E Welles tratteggia forse nel suo «protagonista», ancora una volta, parte del proprio ritratto.

CHISSÀ se intuisce la sorte speculare alla sua che attende l’autore di Easy Rider con l’uscita di The Last Movie, la perdita dei favori di Hollywood, la «caduta dalla grazia». Ma in quella notte del 1970 il mondo per Hopper è ancora pieno di possibilità infinite, e anche questo racconta lo sguardo che rivolge all’ «autorevole» collega. Nella storia improvvisata e girata da Welles c’è però molto più dell’incontro di un filmmaker «al tramonto» e di uno all’apice della sua carriera: c’è l’immagine degli Stati uniti di quegli anni, il racconto del cinema, la magia di un prestigiatore nascosto al di là dell’inquadratura.