Il tiro da tre punti di Kanter: «Erdogan liberi i dissidenti»
Turchia Intervista al cestista turco della Nba reso apolide da Ankara e ripudiato dalla famiglia: «Dissidenti, giornalisti, intellettuali reclusi possono contrarre il Covid, si è preferito liberare mafiosi e assassini. A chi dovrà rendere conto il regime se moriranno?»
Turchia Intervista al cestista turco della Nba reso apolide da Ankara e ripudiato dalla famiglia: «Dissidenti, giornalisti, intellettuali reclusi possono contrarre il Covid, si è preferito liberare mafiosi e assassini. A chi dovrà rendere conto il regime se moriranno?»
«Forse un giorno ci allieterà raccontare tutto questo», scrive Virgilio nell’Eneide riferito alle incredibili vicissitudini che Enea dovette affrontare, diverse da quelle che dal 2013 affronta Enes Kanter, cestista apolide della Nba, centro dei Boston Celtics, a cui Erdogan ha strappato il passaporto.
Kanter degli eroi epici condivide i tratti, i lineamenti e lo sguardo malinconico che traspare dallo schermo di un computer che permette il nostro dialogo; a Enea, oltre l’assonanza onomastica, lo legano il passo, le peregrinazioni ed un’intatta fiducia verso dio. Nonostante il suo ingaggio milionario, la fama, gli stadi che acclamano il suo nome, il suo pensiero è rivolto alla Turchia e alle costanti violazioni dei diritti umani e dello stato di diritto che il regime di Erdogan infligge ai suoi cittadini.
Su di lui pende un mandato di arresto delle autorità turche che lo hanno condannato a quatto anni di reclusione per terrorismo, la sua famiglia è stata costretta a ripudiarlo e nessun luogo è sicuro per lui. Le parole di Enes Kanter sono risolute come un terzo tempo sotto al canestro, leggere come un passaggio e decise come un tiro da tre punti.
Enes, quando inizia la persecuzione del governo di Erdogan nei tuoi confronti?
Nel 2013 in Turchia vi fu un’indagine penale che coinvolse personaggi centrali del governo Erdogan che portò all’arresto di una cinquantina di persone, tutte legate al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp). Subito dopo Erdogan mise in carcere giudici, pubblici ministeri, esponenti della polizia che indagavano su di lui. Poi toccò ai media, le scuole e le università: in carcere finirono insegnanti, giornalisti, intellettuali innocenti. In quel momento mi sono detto che non potevo rimanere in silenzio e feci un tweet che divenne virale qui negli Stati uniti dove mi trovavo e in Turchia. Da quel momento Erdogan ha iniziato a perseguitarmi.
Questa persecuzione ha portato la tua famiglia a ripudiarti pubblicamente.
Per me essere disconosciuto è un grande dolore costante e continuo. So perché la mia famiglia lo ha fatto. Mio padre era docente ed è stato licenziato, mia sorella dopo essersi laureata in medicina è rimasta disoccupata, mio fratello cestista come me è stato buttato fuori da tutte le squadre. Il governo turco non ha creduto neanche al disconoscimento di mio padre e quindi un giorno la polizia si è presentata in casa e gli ha portato via la televisione e i telefoni perché non voleva che ci fosse nessuna forma di comunicazione tra di noi. Hanno arrestato mio padre per sette giorni e solo grazie a una campagna pubblica siamo riusciti a liberarlo. Per tutti questi motivi capisco la loro abiura e per questo il mio cuore certi giorni sembra quasi soffocare dal dolore.
Che strategia utilizza Erdogan nei confronti dei dissidenti che si trovano all’estero?
Come primo step c’è la pubblica denigrazione, poi la revoca della cittadinanza così da far comparire il tuo nominativo sulle liste dell’Interpol come se, anziché un dissidente, fossi un criminale internazionale.
Quale ruolo spetterebbe nello scacchiere internazionale alla Turchia e quali possono essere le azioni che la comunità internazionale e la società civile possono compiere contro il regime di Erdogan?
Vedo la Turchia come un grande ponte tra l’Islam e l’Occidente, un ponte di cultura e di pace, dove il colore della pelle, l’etnia, la religione e il proprio credo politico siano dei valori aggiunti e non un reato da punire. Anche per questo ho lanciato una campagna che si chiama «You are my hope» per raccogliere un milione di firme da consegnare alla Casa bianca e alle istituzioni internazionali per mettere in luce i crimini di Erdogan e del suo governo. Ad esempio mentre parliamo, in piena pandemia, c’è il rischio che i dissidenti politici, i giornalisti, gli intellettuali reclusi possano esser lasciati morire per il coronavirus perché si è preferito liberare mafiosi e assassini dalle carceri invece che i dissidenti. A chi dovrà rendere conto il dittatore Erdogan se moriranno?
Con il tuo impegno sembri spronarci a essere “partigiani” a non voltare la testa dall’altra parte.
Penso che non appena ti accorgi che c’è una violazione dei diritti e che la democrazia viene calpestata devi alzarti in piedi e agire. Mia madre un giorno mi disse: «Se credi in un ideale non abbandonarlo mai, qualunque sia il prezzo». È chiaro che per chi si schiera le carriere sono in salita, i contratti meno vantaggiosi, la libertà ha un prezzo e quel prezzo fa a botte con il nostro egoismo. Ma cambiare le vite di molti è la vittoria più bella.
Ogni battaglia porta un peso nel cuore, porta mancanze e privazioni. Quali sono le tue?
Immagina con quale animo riesco a disputare una partita di basket pensando a mio padre che potrebbe essere incarcerato per altri sette anni senza che io possa fare nulla perché sono lontano. Dopo ogni partita guardo una foto di mia madre, l’unica cosa che mi è rimasta della mia famiglia, una semplice foto, la guardo e le dico «Sto facendo quello che devo». In quel momento sento il suo odore, la sua carezza, immagino il suo cibo cucinato sulla tavola e penso che Dio vuole che sia un esempio, che la mia lotta sia giocare per liberare il mio popolo. Non sono un giornalista, non sono uno scrittore, ho solo queste parole, magari semplici che però spero possano spezzare le catene di molti e liberare la mia Turchia.
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