«Il tempo che ci vuole», inventarsi nel paesaggio lieve del cinema
Cinema Francesca Comencini presenta un lavoro dedicato al rapporto col padre Luigi, dall’infanzia all’addio. Fabrizio Gifuni nei panni del regista di «Pane amore e fantasia»; il film in sala dal 26 settembre. Le emozioni e gli anni sui set, Roma e la lotta armata, la fragilità e la forza
Cinema Francesca Comencini presenta un lavoro dedicato al rapporto col padre Luigi, dall’infanzia all’addio. Fabrizio Gifuni nei panni del regista di «Pane amore e fantasia»; il film in sala dal 26 settembre. Le emozioni e gli anni sui set, Roma e la lotta armata, la fragilità e la forza
Di sé, della sua vita Francesca Comencini aveva fatto la materia del film d’esordio, Pianoforte (1984) premiato proprio alla Mostra di Venezia, nel quale raccontava i suoi anni dell’eroina e di un amore che questa aveva divorato, della scelta di vita e di morte di una giovane coppia e con loro di una generazione. «Non capisco perché volete parlare sempre di voi» la rimprovera il padre, Luigi, del quale la presenza attraversa anche un altro film della regista, Le parole di mio padre da Italo Svevo. Queste suggestioni sembrano fondersi nel nuovo film della regista, Il tempo che ci vuole, presentato fuori concorso – chissà perché poi visto che la sua grazia incantata lo rende assai più intenso di tanti dei film italiani e non passati in questi giorni nella competizione di cui si attende oggi il verdetto della giuria presieduta da Isabelle Huppert. Qual è dunque questo tempo di cui c’è bisogno? Quello del cinema e quello della vita, il tempo personale e quello di un Paese che si fondono nel racconto di una relazione fra una figlia e un padre e nel loro confronto lungo gli anni, in una passione condivisa e nei loro diversi sguardi sul mondo, su come abitarlo e su come raccontarlo. Luigi è il regista di Pane amore e fantasia o Marcellino pane e vino, appassionato collezionista salvò preziose pellicole delle origini dando vita alla Cineteca di Milano che l’autrice utilizza nel film a moltiplicare i piani di una narrazione che segue il filo della memoria, in cui i contorni sono netti e le corrispondenze più segrete, dove il tempo si accartoccia, unisce la Storia e le storie nel movimento delle emozioni.
DENTRO all’appartamento di una Roma anni settanta disegnato da lungo corridoio borghese padre e figlia soli condividono amore e complicità. È la beatitudine dell’infanzia, lui ama i bambini e non permette che nella scuola di lusso della figlioletta vengano trattati dalla maestra senza rispetto. Lei lo segue sui set di Pinocchio, scopre l’incanto del cinema, mentre lui lavora i disegni del pescecane che la spaventano. Guarda e ascolta, entra nell’inquadratura, rischia di fargli perdere la luce giusta. Quel padre è una sorpresa e un mistero ai suoi occhi di bimba, alla radio ascolta canticchiando le canzonette e si prende le mani nella testa quando dalla tv arrivano le immagini delle stragi.
MA LA GEOMETRIA sentimentale che si disegna lì, in quello spazio dell’anima dove ci sono soltanto loro due non può escludere l’esterno che irrompe a un certo punto prepotente. La ragazzina curiosa e impertinente ma sempre adorante diventa una ragazza con la fragilità dell’adolescenza e gli infiniti interrogativi in cui ci si può perdere. Fuori c’è l’Italia dei movimenti, delle utopie di rivoluzione e della cupezza della lotta armata, il padre si trasforma in un nemico, le stanze di quel corridoio in un assedio. Porte che si chiudono e che si aprono, spiarsi a vicenda, cercare (il padre) nella figlia le risposte al malessere che non riesce a nominare, volere la «verità» in nome della menzogna.
ALLA SOLITUDINE dell’interno famigliare si contrappone per lei l’abbraccio caldo di quel «fuori», Piazza Navona, l’amore e l’eroina, intanto le Br hanno rapito Moro, lei crolla, il padre non la lascia, la porta a Parigi, lui invecchia, gli tremano le mani ma le sta accanto, in quella vita che scorre, che cambia, che la riporterà mamma e regista e poi con lui sull’ultimo set. Dirsi addio è un volo sulle nuvole, una danza col sorriso delle lacrime.
Fabrizio Gifuni sa dare al personaggio di Luigi Comencini dolcezza e ironia, e l’eleganza garbata, di attenzione e cura sul lavoro e fuori, Romana Maggiora Vergano a quello di Francesca l’irrequietezza e la fragilità che si fa forza. Luigi invecchia, lei attraversa gli anni uguale dall’adolescenza dei banchi di scuola e dello spaesamento politico e esistenziale, ma appunto lo sguardo è quello dei ricordi, non accade così quando pensiamo a noi stessi tra passato e presente? Perché entrambi sono dei personaggi, insieme «veri» e letterari, e in questa costante tensione fra realtà e dimensione personale il film ci porta nell’immaginario e in ciò che lo compone. Come una maga Francesca si appropria della distanza narrativa di se stessa tra gli occhi dell’infanzia e dell’età adulta, e in questo incanto la vita si fa cinema, inventa sé stessa e viceversa – preziosa la complicità della fotografia di Luca Bigazzi che sa coglierne i desideri e i punti di fuga.
Non è un’autobiografia né la biografia di Luigi Comencini ma un magnifico e commuovente passo a due questo film (in sala dal 24 settembre): padre e figlia nel gesto d’amore profondo della seconda per il primo dichiarato con delicatezza lieve, nella quale prende forma il passaggio delle esperienze e come ciascuno deve e può trovare la propria dimensione. Il cinema è potente, è un luogo che contiene in sé infinite piste da esplorare. Come quella vita che racchiude.
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