Forse non è un caso se i colleghi della squadra Omicidi di Glasgow non lo prendono troppo sul serio, eppure l’intuito di Jack Laidlaw è fuori discussione: nessuno come lui è capace di immergersi così profondamente in un caso, tanto da dimenticare tutto il resto, scordarsi di sé come dei propri cari.

È CHE È DIFFICILE dare retta a uno sbirro che cita Socrate e Kierkegaard mentre è in cerca di indizi nelle zone povere, e malfamate, che sorgono intorno ai cantieri navali di Glasgow. Siamo nel 1972 e il «sogno scozzese» intriso di petrolio è ancora allo stadio dell’annuncio, mentre per le strade sono in tanti a leccarsi le ferite per tutto ciò che è già andato storto nelle loro vite.

L’orizzonte, per il mondo della working class locale è dominato dalla malavita e dalle gang giovanili, dal razzismo settario che prende a modello gli unionisti dell’Ulster nel tentare di escludere i cattolici dai contratti ben pagati riservati all’aristocrazia operaia e dalla povertà che sembra inseguire sempre le stesse famiglie, gli stessi quartieri, le stesse case: generazione dopo generazione. La città appare segnata, senza scampo, quasi la traiettoria di ciascun destino personale fosse stata tracciata da tempo e in modo indelebile.

Durante le indagini, Laidlaw, prossimo ai quaranta, una moglie e tre figli piccoli ad aspettarlo a casa, dorme spesso in albergo per non staccare mai dalla pista che sta seguendo, per non tornare neppure un momento alla propria vita normale, ammesso che ne abbia davvero una, non si cambia d’abito e, nei momenti liberi, vaga per Glasgow in bus quasi gli servisse a riordinare le idee. Ciò che osserva non lo porta però molto lontano.

DAL FINESTRINO GUARDA il cielo «oscurato dal fumo dei camini dei palazzi popolari fatiscenti» che avvolge anche gli edifici civici in stile vittoriano, «una volta grandiosi ma ora in pericolo di essere inghiottiti dalla modernità». Lo skyline della città sta per mutare, travolto da una ristrutturazione urbanistica che si vorrebbe anche sociale. Le vecchi certezze «sarebbero state presto schiacciate come cicche di sigarette sotto una scarpa. Ma Laidlaw non dubitava che le nuove case non avrebbero fatto molto per risolvere i problemi endemici di Glasgow. Dietro vernici e intonaci nuovi, avrebbe trovato sempre povertà, matrimoni senz’amore, violenze domestiche, bile settaria, come brutti tatuaggi nascosti sotto una camicia pulita».

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Per l’esordio del suo detective-filosofo, William McIlvanney aveva immaginato una guerra tra gang, quella che si apre con l’assassinio dell’avvocato della mala Bobby Carter nei pressi di un pub controllato da una banda rivale, che consentisse a Laidlaw di cogliere, e analizzare, una fase di profonda trasformazione della città a cui lo scrittore e poeta era profondamente legato. La sua scomparsa nel 2015 ha però impedito che quel romanzo vedesse la luce.

Riprendendo le carte di McIlvanney, di cui Feltrinelli ha già pubblicato tre indagini del bizzarro agente della Omicidi, a completare l’opera ci ha pensato ora un altro scrittore scozzese, anch’egli tra i protagonisti del cosiddetto «tartan noir», Ian Rankin che in Oscuri resti (Feltrinelli, pp. 250, euro 18, traduzione di Alfredo Colitto) ricostruisce la genesi e il profilo del personaggio in quello che è a un tempo un poliziesco implacabile e lo spaccato di un mondo sul punto di andare in frantumi.

Senza raggiungere la lucida ferocia del Red Riding Quartet di David Peace (Il Saggiatore), che narra attraverso le gesta di un serial killer la realtà dello Yorkshire a partire dalla prima metà degli anni Settanta, Oscuri resti invita a fare i conti con le tracce che i crimini sociali possono lasciare sugli individui, prima ancora di trasformarsi in atti violenti.

QUEL CHE LAIDLAW, rispondendo alle battute dei colleghi a propositi dei libri che ingombrano costantemente la sua scrivania alla Omicidi, mostra di aver capito bene: «Noi sappiamo come finisce un crimine. Con un cadavere, e forse con un processo e una condanna. Ma dove comincia? Questa è una domanda molto più spinosa. Se riuscissimo a capire da dove ha origine un crimine, forse potremmo evitare che si commetta. Non servono tanto i poliziotti come te e me, ma i sociologi e i filosofi. Ecco il motivo di quei libri».