Il Tribunale amministrativo del Lazio ha respinto due ricorsi di Medici senza frontiere (Msf) dando ragione al Viminale. L’organizzazione non governativa aveva contestato l’assegnazione di porti lontani, quelli di Ancona e La Spezia, a seguito di due soccorsi effettuati nel Mediterraneo centrale, a centinaia di chilometri dal luogo di sbarco indicato dalle autorità italiane.

Per il Tar è «evidente e innegabile» che spetti al ministero dell’Interno decidere in quale porto devono toccare terra i migranti salvati perché le «operazioni di soccorso vanno inquadrate nel più ampio e complesso contesto del fenomeno migratorio via mare». La sentenza nega che il porto sicuro debba coincidere automaticamente con quello più vicino perché «manca una definizione chiara ed internazionalmente condivisa» dello stesso.

Le autorità italiane si sarebbero dunque comportate in maniera corretta, anche perché la Geo Barents è una nave idonea ad affrontare in sicurezza il lungo tragitto e da bordo non erano state segnalate situazioni di urgenza.

Non è la prima volta che in sede amministrativa il giudice dà torto alle Ong, a differenza di quanto avvenuto finora in tutti i procedimenti penali contro i soccorritori. La sentenza rischia di essere un duro colpo per le organizzazioni attive nel Mediterraneo centrale.

Da dicembre dello scorso anno l’Italia ha messo in campo una nuova strategia per ostacolarne le missioni: indicare un porto lontano subito dopo il primo soccorso. A tutela di questa prassi sono poi state introdotte alcune misure punitive dal decreto Piantedosi di gennaio, successivamente convertito in legge (finora ha portato al fermo di quattro imbarcazioni per circa tre settimane ciascuna).

In questo modo le navi umanitarie sono tenute lontano dalla zona di ricerca e soccorso per molti giorni e riescono a portare al sicuro un numero inferiore di persone. Nel frattempo, comunque, gli sbarchi sono aumentati.