Il “superpresidente” Erdogan alla prova del Medio oriente
Referendum Il leader turco userà l'esito del voto di domenica per mostrarsi più forte nella regione, specie nello scenario siriano. Ma accanto chi lo appoggerà ci sarà anche chi frenerà le sue ambizioni
Referendum Il leader turco userà l'esito del voto di domenica per mostrarsi più forte nella regione, specie nello scenario siriano. Ma accanto chi lo appoggerà ci sarà anche chi frenerà le sue ambizioni
Se le relazioni tra la Turchia e l’Europa occidentale sono uno dei risvolti centrali dell’esito del referendum costituzionale di domenica, la (risicata) vittoria dell’islamista sunnita Erdogan è destinata ad avere riflessi anche sulla scena mediorientale. Le reazioni arabe e islamiche al voto offrono un quadro chiaro del peso, in positivo per alcuni attori, in negativo per altri, che il “superpresidente” turco ha nella regione. Tra i primi a congratularsi non poteva che esserci l’emiro del Qatar, Tamim Bin Hamad Bin Khalifa Al-Thani, che domenica sera ha subito telefonato al suo alleato di ferro Erdogan per esprimergli la sua soddisfazione ed augurare «relazioni ancora più strette» tra Doha e Ankara. I due Paesi hanno una strategia comune in Siria finalizzata a forzare l’uscita di scena del presidente Bashar Assad. Ed è prevedibile che un Erdogan con le mani ancora più libere di prima torni ad adottare una linea molto rigida nei confronti di Damasco e del suo alleato Iran. Un primo test ci sarà già oggi quando si riuniranno a Tehran le delegazioni di Russia, Turchia e Iran per preparare il nuovo round di colloqui sul futuro della Siria previsto a inizio maggio ad Astana.
Erdogan che alla fine del 2016 sembrava aver preso atto della realtà siriana tanto da rinunciare alla sua richiesta di una rapida “rimozione” di Assad, dopo il bombardamento americano della base aerea siriana ordinato da Trump, è tornato a rullare il tamburo di guerra. «Ed è molto probabile che continui a farlo nei prossimi mesi, perché grazie all’esito del referendum Erdogan ora ritiene di essere più forte, anche in politica estera» dice al manifesto Ali Hashem, analista del portale al Monitor. I rapporti tra la Turchia e l’Iran sciita, sostenitore di Assad, perciò saranno di nuovo al centro dell’attenzione. «Erdogan che culla il sogno di riportare il suo Paese ai fasti e al dominio regionale che ebbe per secoli con il Califfato, in questi anni ha già svolto una linea di contenimento delle ambizioni iraniane che rischia di diventare un muro contro muro», aggiunge Hashem. L’analista allo stesso tempo sottolinea i rischi connessi a una maggiore intraprendenza del presidente turco. «Erdogan non nasconde di voler diventare la guida politica dell’Islam sunnita nella regione ma questo è il ruolo che si attribuisce la casa regnante saudita e, pertanto, resta uno dei temi caldi nei rapporti tra Ankara e Riyadh che pure sono alleate contro Assad e l’Iran».
Il leader turco peraltro, proponendosi con troppo slancio come riferimento principale dei sunniti in Medio oriente, finirebbe anche per rinsaldare i rapporti, al momento freddi, tra il re saudita Salman e il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi, a capo dei due Paesi arabi più importanti. Il Cairo, a differenza di altre capitali sunnite, non ha accolto con un applauso il successo di Erdogan che accusa di essere uno degli sponsor principali dei Fratelli musulmani, organizzazione dichiarata “terrorista” in Egitto dopo il golpe militare del 2013. I media vicini al regime di el Sisi ieri commentavano il risultato del referendum turco sottolineando non la forza bensì la «debolezza» di Erdogan che dovrà governare un Paese diviso in due, tra sostenitori e oppositori della sua leadership.
Festeggiano senza alzare troppo la voce i leader di Hamas, da anni sotto l’ala protettrice di Ankara, che sperano ancora che la piena ripresa dei rapporti tra Israele e Turchia possa produrre l’allentamento della pressione di Tel Aviv sulla Striscia di Gaza. Una speranza risultata sino ad oggi vana. Erdogan non ha alcuna intenzione mettere a rischio la ritrovata armonia con un alleato fondamentale come Israele – nella gestione dei rapporti di forza regionali – per raggiungere il traguardo della fine del blocco di Gaza che pure aveva promesso nel 2010 dopo l’assalto dei corpi speciali israeliani alla nave turca Mavi Marmara diretta a Gaza con la Freedom Flotilla. Ne è una dimostrazione il silenzio calato su quelli che il leader turco descriveva appena un paio d’anni fa come i «crimini di Israele nei confronti dei palestinesi». Sullo sfondo c’è il presidente dell’Anp Abu Mazen che da Erdogan invece si aspetta pressioni proprio su Hamas, per ridimensionare le ambizioni del movimento islamico da dieci anni al potere a Gaza.
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