Quanto pesa la violenza del passato nell’attualità del vecchio continente? È forse questa la domanda più urgente che ci consegna l’adattamento di Niente di nuovo sul fronte occidentale, il romanzo ambientato durante la Prima guerra mondiale di Erich Maria Remarque, pubblicato originariamente nel 1929. Diretto dal regista tedesco Edward Berger – una carriera tra cinema e serie tv dopo la formazione negli Stati Uniti – il film è prodotto da Netflix, dove è visibile già da qualche tempo.

INIZIALMENTE passato un po’ sotto silenzio, se ne è tornato a parlare dopo che la Germania l’ha scelto come titolo da iscrivere agli Oscar per concorrere come miglior film internazionale. Ma il lavoro è stato poi inserito nelle shortlist di altre quattro categorie (miglior fotografia, adattamento, effetti speciali, trucco) dimostrando di essere stato piuttosto apprezzato dall’Academy.
Eppure Berger ha scelto un’angolazione complessa da cui raccontare lo scontro sanguinoso tra Francia e Germania nel 1918. Il protagonista è Paul Bäumer (interpretato da Felix Kammerer), giovanissima recluta tedesca che seguiamo durante l’arruolamento, scelto con entusiasmo insieme ad alcuni compagni di scuola. Ma poco sappiamo sul suo conto – intuiamo una famiglia assente, nient’altro – così come poco vengono approfonditi i rapporti tra Paul e i commilitoni. Il regista sceglie un punto di vista distaccato, con un messaggio piuttosto chiaro: in guerra gli individui perdono la propria identità, diventano intercambiabili e dunque sacrificabili in virtù di questo anonimato. La conseguenza è che il film impiega circa la metà della sua durata per entrare nel vivo e trovare un proprio respiro, scarto che avviene nella resa in immagini dell’orrore feroce della distruzione. È infatti nei corpi martoriati che cercano di sfuggire alla morte durante una battaglia campale che il film trova intensità, fino ad esplodere nella scena che vale l’intera visione. Paul si ritrova intrappolato in una conca insieme ad un soldato francese, e sullo schermo prende forma quella che sembra una fedele trasposizione de La guerra di Piero di De André, ma a parti invertite: ecco la divisa di un altro colore, ecco la necessità di attaccare per primi per non morire. Paul è più veloce e accade l’inevitabile. Ma finalmente, di fronte alla violenza estrema dell’eliminazione di una vita, emerge l’identità del caduto, la sua storia. E allora si palesa in tutta la sua forza l’insensatezza della guerra e la critica antimilitarista del film (e del romanzo). Perché quello che potrebbe sembrare un sacrificio ad un Dio che si nasconde, a questa dimensione mitica e ancestrale della guerra, si sostituisce quella più concreta dei negoziati, delle parti che si incontrano per cercare un accordo, e della durezza di alcuni uomini di potere le cui mani grondano di sangue.

ALLE SCENE di combattimento si alternano visioni della foresta e della natura – la fotografia, acclamata da più parti, è di James Friend – con il suo scorrere insensibile alle vicende umane, anche quando la morte non avviene nei momenti topici ma in incidenti marginali, rendendola ancora più difficile da accettare. Sono le conseguenze di una violenza ormai onnipresente e incistata in un’intera società, che solo su quel fronte ha accettato la perdita di tre milioni di persone in una logorante guerra di trincea che, come ricordano le note finali, spesso si è risolta in minimi o nulli avanzamenti.
Niente di nuovo sul fronte occidentale di Berger arriva quasi dopo cento anni dall’adattamento cinematografico di Lewis Milestone del 1930. Allora vinse l’Oscar per il miglior film e la miglior regia. Un precedente che porterà fortuna? Di sicuro sappiamo che in Europa, nel 2023, c’è di nuovo un fronte, aperto come una ferita.