È uscito da poco un volumetto intitolato Ayahuasca e cura del mondo (Politi Seganfreddo Edizioni) a firma di Piero Cipriano, uno psichiatra che si definisce anarchico, e che a lungo si è mostrato scettico nei confronti degli approcci psichiatrici.

Prima di questo scritto Cipriano aveva pubblicato per Elèuthera una trilogia (La fabbrica della cura mentale, Il manicomio chimico, La società dei devianti) dedicata alla sua riluttanza nei confronti della declinazione intrinsecamente violenta di molta psichiatria, che se un tempo si esercitava tramite gli internamenti, oggi ha trovato strade più sofisticate, ricorrendo a quello che di fatto è un ingabbiamento diagnostico, cui consegue un «manicomio chimico».

Alla pars destruens costituita da queste premesse mancava, secondo Cipriano, una controproposta terapeutica, e l’autore ritiene che possa essere costituita dalle terapie psichedeliche. Il decotto amazzonico dell’ayahuasca è forse il composto visionario più di moda in questi anni (nella versione standard è composto da una liana, la Banisteriopsis caapi, che contiene gli inibitori della mono-amino-ossidasi, in grado di disinnescare gli enzimi che nel nostro apparato digerente disattiverebbero la Dmt contenuta nell’altra pianta-ingrediente, la Psychotria viridis), e nella prima parte del libro l’autore ne indaga le proprietà, strettamente legate al contesto etnografico da cui arriva il cocktail.

È molto interessante la carrellata di curiosità sul significato dell’ayahuasca e delle interpretazioni tradizionali con cui Cipriano ci attira in argomento. L’immagine del Dna come trasfigurazione del «serpente cosmico», la Dmt rilasciata dal nostro corpo ogni notte alle 3:33, la ricorrente visione sciamanica del giaguaro (leggendario artefice della pozione), la vittoria del campionato colombiano da parte di una squadra che faceva team building a suon di riti ayahuascheri, sono ami più che sufficienti per innescare l’attenzione.

Così ho contattato Cipriano, tra le prime cose ha voluto ricordarmi che «l’ayahuasca non esiste», o meglio ce ne sono versioni infinite e che «si tratta di un contenitore farmacologico multiuso in cui può esserci di tutto, dipende dall’umore dell’ayahuaschero, e da come le piante sono state scelte, coltivate, cucinate, diluite… Cose che la scienza non potrà mai afferrare».

Perché? «La scienza ha bisogno del principio attivo, dai funghi estrae la psilocibina; per l’ayahuasca non si potrà fare, a meno che non si provi a ricavarne una versione da laboratorio, una “farmahuasca” con una Dmt e un inibitore delle Mao sintetici». Il tutto senza considerare che per molti nativi il decotto può essere pure costituito dalla sola liana con le betacarboline: l’armina, l’armalina e la tetraidroarmina, un set di molecole che a inizio Novecento erano chiamate “telepatina”, «e questo già spiega tutto».

Indagare le ineffabili qualità dell’ayahuasca serve a Cipriano per teorizzare il sogno dell’ospedale psichedelico, un miraggio in grado di minare alle fondamenta gli attuali approcci della psichiatria, legati da quarant’anni ai sintomi indicati dal Dsm, totem diagnostico che a ogni nuova edizione continua a parcellizzare sempre più la tassonomia della sofferenza psichica, «inventando disturbi che un tempo non c’erano, e creando nuove classi di malati da curare con i “missili intelligenti”, Prozac & friends, che in questi decenni hanno mostrato la loro parziale efficacia, o il fatto che debbano essere assunti per anni, o per sempre».

Secondo il chimico Alexander Shulgin negli anni ’50 e ’60 c’è stata una partita tra sostanze diverse. Cipriano ricorda: «C’erano le molecole up, che tirano su, antidepressivi e anfetamine; le molecole down, cioè i neurolettici, le benzodiazepine e gli stabilizzatori del tono dell’umore; e infine le molecole stella, gli psichedelici, che espandono la coscienza. Vennero proibiti nel ’71 e noi psichiatri da allora lavoriamo con le altre, senza andare lontano. Chi prende antipsicotici ingrassa, va incontro a sindromi metaboliche, vede ridursi l’aspettativa di vita; chi prende antidepressivi dopo qualche anno fronteggia depressioni farmaco-resistenti».

Era inevitabile tornare a interrogarsi sul potenziale degli psichedelici, che a detta dell’autore possono implicare un superamento della parcellizzazione diagnostica, puntando a curare un malessere psichico generalizzato. «Il rinascimento psichedelico non storicizza cos’è la psichiatria: sin da fine Ottocento abbiamo diviso i pazienti curabili, i maniaco-depressivi; dagli incurabili, gli schizofrenici. Siamo ancora in questo solco. Chi ora studia le terapie psichedeliche, le propone per trattare depressione, ansia, disturbo post traumatico da stress, dipendenze… ma non per la psicosi. Siamo ancora prigionieri della dicotomia tra sommersi e salvati».

Cipriano ricorda come negli anni ’50 e ’60 ci fosse più coraggio. Psichiatri come Stanislav Grof tentavano di curare anche gli psicotici con queste terapie, e con qualche successo. «La mia ipotesi si allaccia a quanto scritto da alcuni antipsichiatri come Ronald Laing, che nella Politica dell’esperienza sostiene che il delirio sia una sorta di viaggio sciamanico senza ritorno. Se fossimo più coraggiosi potremmo tentare di curare con queste sostanze anche gli psicotici, aiutandoli a tornare dal loro viaggio».