Il socialismo alle Nazioni unite
«Data l’insufficienza della domanda globale, è assai improbabile che il commercio internazionale possa da solo promuovere un risollevarsi della crescita economica. Il commercio internazionale non ha rallentato né è rimasto pressoché stagnante a causa di barriere tariffarie o difficoltà su lato dell’offerta; la sua lenta crescita è determinata da una debole domanda globale. In tale contesto, una squilibrata enfasi sui costi del commercio, inducendo a fare sforzi per spingere le esportazioni con una riduzione dei salari e una “svalutazione interna”, sarebbe autodistruttivo e controproducente, specialmente se tale strategia venisse perseguita da diversi Paesi contemporaneamente».
Così scriveva nel 2014 UNCTAD, l’agenzia ONU che si occupa di commercio e sviluppo, negli anni in cui il free market di vari trattati bilaterali andava per la maggiore.
Resta chiaro che gli economisti di tale agenzia siano fra le voci più critiche delle dinamiche economiche dominanti. Per tale ragione il loro più recente rapporto Trade and Development Report 2022 è senz’altro rilevante. Già nel primo abbozzo di ricostruzione del contesto generale presentata da Richard Kozul-Wright – economista UNTACD – nella conferenza stampa presso la sede ILO è palpabile la gravità dei problemi. In primo luogo il debito dei paesi meno sviluppati, che è galoppato nella crisi Covid e col rialzo del dollaro rischia di diventare un macigno sulle loro spalle.
Con una franchezza insolita l’economista critica i colleghi: le istituzioni basate a Washington, dice (cioè FMI e Banca Mondiale) hanno un approccio cinico, perché ritengono di poter gestire le crisi debitorie senza considerare le loro ricadute economico-sociali unicamente perché si verificheranno in paesi non sviluppati. Ma i problemi sono generali, come avvertono – senza grandi clamori, diremmo – gli stessi regolatori dell’eurozona: in uno dei suoi più recenti comunicati un organismo interno alla BCE, l’European Systemic Risk Board, lancia l’allarme in merito al debito delle aziende e alle imprese-zombi (che continuano ad esistere in virtù dei soldi che prendono a prestito più che di quelli incassati per la loro produzione), che il peggioramento del quadro rischia di fare fallire generando un effetto a catena.
Una delle maggiori preoccupazioni è il ritorno della austerità correlato alle risposte anti-inflazione delle banche centrali (FED e BCE in testa); Kozul-Wright dipinge un ritratto a tinte vivaci, una lotta di Davide contro Golia cioè delle agenzie ONU contro la FED, il cui approccio verso l’inflazione descrive ironicamente come la visione di un eccesso di massa di soldi che non riesce ad acchiappare i pochi beni, mentre lo si può descrivere come una serie di shock interconnessi sul lato della offerta che stanno alla base del costo della vita.
Non a caso accenna alla necessità di ridiscutere il dogma della indipendenza delle banche centrali – e con questo l’UNCTAD si colloca a sinistra dei vai progressisti per cui il conflitto sociale va promosso, ma mica vorrete lasciare le banche centrali alla politica sporca e corrotta?
L’economista si mostra scettico anche sulla narrativa progressista sulla presunta “morte del neoliberismo” dovuta al ritorno del ruolo dello Stato: sia perché l’indubbio protagonismo dei governi nelle politiche fiscali del 2020 non va sovrastimato e va considerata la crescita del potere delle aziende globali in quella congiuntura; ma anche perché stiamo riprecipitando nelle politiche del 2019 con tutte le problematicità del decennio, dal proposito mai realizzato di regolamentare la finanza alla insufficienza del G20 come piattaforma di coordinamento per affrontare la crisi. Fallimento che si ripete nella gestione della nuova crisi da Covid, in specie nel contesto Ue con il cosiddetto «recovery fund» troppo scarso e spalmato su sei anni. Decisamente l’UNCTAD può essere un riferimento per una visione macroeconomica più avanzata della ortodossia dominante.
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