A quanti, non senza valide ragioni, rimproverano la carenza di charme che ha accompagnato la costruzione dell’Europa politica unitaria e soprattutto le forme istituzionali nelle quali tale progetto si è andato progressivamente traducendo, si potrà sempre replicare che in realtà questo sforzo altalenante «un romanzo» lo ha comunque ispirato. Non nel senso di una generica tensione ad una forma narrativa plurale, tale da ispirare sentimenti o accompagnare attese e speranze, quanto piuttosto nello sviluppo di una sorta di vero e proprio genere letterario.

È in particolare all’intellettuale e scrittore austriaco Robert Menasse che si deve la genesi di un canone, per altro ancora in attesa di essere ripreso da altri, che prevede che proprio i processi legati al divenire dell’Unione europea diventino altrettanti elementi per una costruzione romanzesca. Così era stato nel 2018 per La capitale (Sellerio), un anomalo poliziesco che finiva in realtà per indagare soprattutto sulle astruse pratiche proprie della burocrazia di Bruxelles. Una pletora di personaggi bizzarri, ma depositari a più d’un titolo del percorso che ha condotto il Vecchio continente verso questo decisivo traguardo, come un vecchio ebreo sopravvissuto ad Auschwitz che ricorda come il «Mai più!» sia uno dei dettami su cui l’intero progetto della Ue ha preso forma, raccontano delle inquietudini come delle speranze che abitano i palazzi delle istituzioni comunitarie, il ruolo dei think-tank, la vita quotidiana del piccolo esercito di funzionari che si muovo per la città, e da una riunione all’altra, trascinandosi dietro gli inseparabili trolley.

CONVINTO EUROPEISTA, Menasse era anche intervenuto nel dibattito che aveva visto contrapporsi una decina di anni fa alcuni noti intellettuali di lingua tedesca sull’opportunità o meno di continuare a credere nella prospettiva europea, sostenendo come «per la prima volta nella storia di questo Continente esiste un centro verso il quale tutti i Paesi, volente o nolente, convergono. Un centro che saprà portare avanti una rivoluzione strisciante, modificando lentamente gli assetti di questo continente, oppure ne causerà l’affondo». Così, se sullo sfondo della vicenda descritta ne La capitale emergeva la necessità di «una rifondazione» materiale della «capitale» della Ue, non per rinunciare alla prospettiva unitaria quanto piuttosto per offrire ad essa nuovo impulso, nel nuovo romanzo dello scrittore viennese, L’allargamento (traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli, Sellerio, pp. 728, euro 22), l’orizzonte si sposta, come indicato fin dal titolo, sulla prospettiva dell’ulteriore estensione dei confini dell’Unione, in particolare verso i Paesi dei Balcani.

Al centro di un furioso intrigo internazionale che finirà per coinvolgere le mafie locali, l’Europol e gli interessi di potenti gruppi politico-economici abituati ad agire nell’ombra, si troverà un manufatto dalla storia complessa, l’elmo di Scanderbeg, il condottiero considerato fondatore dell’Albania, misteriosamente rubato da un museo della capitale austriaca. Del resto, a Tirana c’è un politico che scommette sul peso che tornare ad indossare quell’elmo potrebbe giocare nelle trattative con Bruxelles: «Riunire simbolicamente tutti gli albanesi, non importa se vivono in Europa centrale o dell’Est, sotto un unico capo la cui legittimità di basa su mezzo millennio di storia, significherebbe acquisire un potere reale». Ancora una volta, Menasse gioca sapientemente con il presente e il passato d’Europa, evocando simboli dal fascino ambiguo cui contrapporre la razionalità di un processo di unione continentale che necessita di passione ma anche e soprattutto di attenta riflessione ed estrema equità nell’approccio ad ogni elemento e dossier.

IL PORTATO DELLA STORIA europea, molto più spesso il suo peso ingombrante e terribile rispetto ai possibili apporti positivi provenienti dal passato, è non a caso uno dei nodi intorno a cui ancora oggi hanno luogo molti dei conflitti che traversano lo spazio pubblico continentale, basti pensare all’incessante appello ad «identità» e «radici» che pare talvolta evocare il «sangue e suolo» di un tempo che proviene dalle fila della destra sovranista o neoconservatrice. Aspetti che non sfuggono allo storico olandese Geert Mak che in esergo al volume Il sogno dell’Europa nel XXI secolo (traduzione di Claudia Cozzi, Alessandra Liberati e Francesca Sfondrini, Fazi, pp. 808, euro 28) ha posto i versi dello scrittore tedesco Heinrich Böll, «… non avere paura, da lontano veniamo e lontano dobbiamo andare».

Dopo aver ripercorso con In Europa (Fazi) le tappe contraddittorie che lungo il Novecento hanno portato il continente finalmente verso un’unione politica e culturale, Mak guarda ora alla realtà dell’ultimo ventennio, al modo in cui la costruzione europea ha dovuto far fronte a minacce che vanno dai molti 11 settembre della recente storia continentale fino alla guerra d’invasione scatenata da Putin nel 2022. Quelli che si susseguono pagina dopo pagina sono gli appunti da un terra in crisi, segnata dalla sfiducia e dal risentimento, dalla minaccia dell’estrema destra, dall’incombere prima del pericolo del terrorismo, quindi della sfida della pandemia e ora dalla presenza della guerra. Eppure, malgrado nel suo bilancio, Geert Mak non possa esimersi dall’ammettere che «prima si pensava che la libertà e la democrazia dell’Occidente avrebbero lentamente conquistato i Paesi orientali e il resto del mondo, mentre adesso sembra piuttosto il contrario», quello di un’Europa unita e pacifica resta ancora agli occhi dello studioso olandese «un sogno» da coltivare.

INTORNO ALLA NECESSITÀ di questa dimensione europea, per quanto malconcia e parziale possa apparire oggi, ruotano anche le riflessioni contenute nell’ultimo numero della rivista il Mulino (pp. 190, euro 15) dedicato proprio a «Il futuro dell’Europa, l’Europa del futuro». L’assunto da cui muovono tutti i testi – tra cui si possono segnalare quelli relativi alla guerra in Ucraina, alla difesa comune, alle elezioni e al «motore franco-tedesco» – è che «molte volte abbiamo certificato lo stato di salute precario dell’Unione europea. Altre volte ci siamo detti che il momento era decisivo. Ora lo è davvero, non c’è più tempo: solo un’Europa più forte potrà salvarsi dai nazionalismi». Per una rivista che annovera tra i suoi «padri storici» Altiero Spinelli, la riflessione sul futuro della Ue, e più in generale del ricongiungersi delle diverse aree del Continente, più che urgente diviene perciò necessaria.

Non risulti perciò spiazzante ricordare in questo parziale computo di testi che esaminano con approcci e stili tra loro anche molti diversi il destino del «sogno europeo», il volume – già presentato su queste pagine – del geografo inglese Maxim Samson (Linee invisibili, traduzione di Alessandro Manna, Laterza, pp. 408, euro 24) che, in tema di confini e frontiere, argomento delicato e spesso scomodo quando si parla di Ue – basti pensare alle politiche di respingimento nei confronti dei migranti -, suggerisce come anche quelle «continuamente riprodotte nei discorsi e nelle menti, influenzano e inquadrano il nostro pensiero e il nostro comportamento». Quasi un suggerimento a pensare e vivere l’Europa come uno spazio comune di cultura e libertà prima ancora che come uno spazio politico definito.

Allo stesso modo, come segnalano due libri appena pubblicati, quello dello storico tedesco Heinrich August Winkler, I tedeschi e la rivoluzione, 1848/1989 (traduzione di Elena Sciarra e Simone Anglan-Buttazzi, Donzelli, pp. 152, euro 25) e Grecia 1821, la rivoluzione che cambiò l’Europa dello storico britannico Mark Mazower (traduzione di Luca Falaschi, Laterza, pp. 616, euro 38), nel giorno in cui i cittadini europei sono impegnati a decidere con il voto del proprio futuro comune, non guasterà ricordare che le loro società si sono sviluppate anche a partire dagli esiti vittoriosi di più d’una rivoluzione.