Nel libro Profondo lago (Futura edizioni, pp. 320, euro 20) Gaetano Sateriale fa una cronaca, e un’approfondita riflessione, sulla vertenza che si apre in una fabbrica non solo molto importante – il petrolchimico Montedison di Ferrara – ma anche assai simbolica: fu, infatti, una delle prime nelle quali il sindacato dovette misurarsi con la ristrutturazione avviata, non solo in Italia, dopo le prime sconfitte operaie succedute, all’inizio degli anni ’80, alle grandi vittorie del precedente decennio rosso. Cambiamento enorme, dettato, certo, dalle innovazioni tecnologiche, ma anche dalla voglia degli imprenditori di riconquistare quel poco di potere che i Consigli di fabbrica erano riusciti a strappare. Sostenuti dal nuovo vento che spirava per via della controffensiva conservatrice, guidata da Reagan e dalla signora Thatcher.

L’AUTORE PERÒ (per decenni sindacalista a livello nazionale e inizialmente nella sua città, per l’appunto Ferrara, di cui poi sarà sindaco per dieci anni) questa vertenza la racconta come un esperto romanziere, intrecciando la cronaca del negoziato con la descrizione degli umani che la condussero, le loro emozioni e titubanze, gli scontri che si verificarono anche fra loro e pure la solidarietà che intanto cresceva fra combattenti. Scrivo umani anziché sindacalisti per sottolineare che le trattative sono spesso drammatiche, espongono a difficilissime scelte, da cui dipende la condanna all’espulsione dalla fabbrica di centinaia di operai o addirittura la chiusura dello stabilimento. È per questo che, dopo aver letto un libro che supera le 300 pagine, non ci si ricorda più che si tratta di una vicenda sindacale, ma si pensa a un’appassionante vicenda umana.

Quegli anni li ricordo bene, al manifesto ho cominciato come responsabile sindacato. Per aver seguito soprattutto la Fiat – alla celebre porta numero 2 di Mirafiori – mi sono sempre sentita metalmeccanica e, come tale, a lungo ho diffidato anche io dei chimici (e viceversa). Che polemicamente – come si legge anche in questo libro – la Fiom la chiamavano «signora» per ironizzare sulla centralità che questo sindacato si arrogava.

LA DIVISIONE che si verifica nella Cgil, fra organismi confederali e di categoria, ma anche fra categorie diverse, nel corso della lunga vertenza al petrolchimico (chiamata dai protagonisti «Divina», non so più per quale riferimento niente meno che a Dante) – ammesso sia possibile spiegarla in poche righe – riguardava la questione: deve il sindacato tener conto dei problemi dell’impresa quando questa deve ristrutturare – perché la tecnologia ha cambiato le caratteristiche della produzione e si impone più flessibilità – e perciò ricercare una condivisione con i tecnici? Oppure deve solo opporre un rifiuto? E, nel caso specifico, accettare anche, per una fase, una quota di esuberi che riqualificando la fabbrica con investimenti per nuove tecnologie potrà in seguito riassorbire, o deve fare muro in nome della difesa di tutti già nell’immediato?

Detta così sembra ovvia la risposta positiva, ma dipende: in generale a me pare che il più delle volte non sia così. Come risulta quando si va a vedere come finisce nel lungo periodo la vicenda. Alla Montedison il sindacato riuscì – racconta Sateriale – a dar vita a un’esperienza interessante – le Ali (Area di Lavoro Integrato), ma poi si finì anche lì per occupare la stazione per protestare quando le cose si misero male, più o meno come alla Fiat. A riprova di quanto difficile sia una anche parziale convergenza con la controparte.

NELLA FASE PIÙ ALTA dell’esperienza dei Consigli di fabbrica, si puntò a incidere sulle strutture stesse dell’organizzazione produttiva e non solo a chiedere redistribuzione di reddito, parola d’ordine che nel Pci associavamo all’obiettivo delle famose «riforme di struttura» che oggi ho visto ridicolizzata dal Pd, mentre erano, o almeno volevano essere, un modo per incidere sul sistema.

Quella non era una impostazione miope, ma certo le incomprensioni furono molte, anche in quel caso. Basti pensare a quando i CF si batterono per gli aumenti uguali per tutti, che non erano un estremismo ideologico, ma un modo per impedire che l’assegnazione delle qualifiche e i relativi vantaggi che comportavano fossero usati dai caporeparto come arma di discriminazione. Eppure anche Bruno Trentin accusò allora quella rivendicazione come rozzo egualitarismo. Si trattava, a me pare, di puntare a una riorganizzazione del lavoro che andasse contro il processo già innescato con l’introduzione della job evaluation, che mortificava ogni soggettività dell’operaio riducendolo a un pezzo di macchinario.

NON SONO CERTO IO in una recensione che posso azzardarmi a dire la mia su una fase sindacale così complessa, in cui sono stati coinvolti grandi sindacalisti, innanzitutto Sergio Cofferati, leader nazionale dei chimici. E comunque il quadro entro cui oggi siamo tutti chiamati a riflettere, sindacato e partiti – perché è tema che riguarda tutti – è come, con quali strumenti, di fronte a uno sviluppo tecnologico quarant’anni fa impensabile, quando le previsioni ci dicono che alla fine di questo secolo l’innovazione avrà prodotto una riduzione del lavoro tradizionale del 75 per cento, riusciremo a impedire che i vantaggi tecnologici vadano solo ad aumentare il profitto e non a cambiare positivamente la qualità e il tempo di lavoro di tutti. Quando la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia avrà reso anche più difficile di oggi l’individuazione della controparte.

La tradizione sindacale italiana ha privilegiato il conflitto, quello tedesco la mittbestimmung, la concertazione che prevede la partecipazione del sindacato ai consigli d’amministrazione dell’impresa. Quest’ultima non è finita molto bene, perché ha dato luogo spesso a subordinazione e a passaggi dall’altra parte di singoli sindacalisti. E però è certo che occorrerà trovare nuove forme di lotta in grado di affrontare la complessità dei problemi che in questo quadro si porranno alla contrattazione. Resa anche più difficile dalla parcellizzazione intervenuta, dalla necessità di affrontare temi «orizzontali», quelli che sul territorio coinvolgono soggetti sociali diversi, spesso più importanti di quelli che si incontrano sul luogo di lavoro.

LA TRANSIZIONE, energetica, ambientale, ecc.– dice Sateriale, con cui ho naturalmente discusso del suo libro – comporta in realtà una riconversione generale del sistema produttivo e del lavoro, e sarebbe indispensabile cominciare a delineare strategie di lungo periodo anche a livello europeo. In Italia, certo, tutto si complica per via del gran numero di piccole e piccolissime imprese e però anche di grandi multinazionali incontrollabili. Servirebbe comunque una regolamentazione europea della finanza globale e del fisco; e anche inventare qualcosa come comitati paritetici di partecipazione o, nei grandi gruppi, di comitati paritari strategici. Comunque: non è mai accaduto che quanto chiediamo che faccia il governo venga prima dei movimenti che si impegnano a rivendicarle dal basso.

Su questo siamo certamente tutti d’accordo, e perciò, come si concludevano ai miei tempi le riunioni nelle sezioni del Pci «al lavoro e alla lotta».