Il ritratto del Monte Bianco di Elisa Toscanelli
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Il 10 agosto 1869 da St-Didier, presso Courmayeur, Elisa Toscanelli spedisce a Pisa una lunga lettera al marito, il conte Francesco Finocchietti, da pochi mesi nominato Senatore del Regno. Con il titolo Un’escursione intorno al Monte Bianco quel racconto epistolare verrà stampato nel 1870 a Firenze, dove in quel medesimo anno, nell’aprile, Elisa non ancora quarantanovenne muore. Una pubblicazione postuma delle pagine nelle quali Elisa, annota l’anonimo curatore, «vi si fa innanzi senza studio alcuno, con niun altro ornamento che la sua natural festività ed i suoi istinti artistici singolarissimi».
I suoi istinti artisti singolarissimi: Elisa ha eseguito con diligente perizia, regolarmente tra il 1841 e il 1857, i ritratti dei familiari, degli amici, delle persone che frequentavano, soprattutto nei mesi estivi, la villa Toscanelli alla Cava, presso Pontedera. Delineati ad acquarello, a carboncino, a matita ci restano centodiciotto ritratti su cartoncino del formato tra i trenta e i venti centimetri, raccolti in due album rilegati in cuoio. Per la precisione e l’accuratezza, la attenta aderenza ai tratti di quei volti che Elisa restituisce con l’intento di fornire una somiglianza inoppugnabile, si comprende che il rapido diffondersi dei ritratti fotografici carte de visite, che fecero il successo a Parigi e in Europa dell’oriundo genovese André Adolphe Disdéri (1819-1890), ha condizionato per molti versi il suo meticoloso talento illustrativo.
Forse anche a contraggenio, con una sorta di insoddisfazione dichiarata per i ritratti fotografici, quasi animata da una rivendicazione delle superiori virtù del disegno e della pittura e, pure, incapace di un distacco pieno dall’immagine fotografica. E nell’attitudine di chi sia in posa davanti alla macchina del fotografo, ecco Elisa fissare con le sue matite e i suoi sottili pennelli un volto, uno sguardo, i riccioli d’una capigliatura con la mano sicura d’una ricamatrice. Di particolare pregio i «ritrattini somigliantissimi» di giovani contadine coetanee eseguiti a Cava negli anni Quaranta. Nel 1859, nell’inviargli forse uno dei suoi cartoncini, scrive al padre: «eccole il ritratto. A me pare venuto benissimo». E aggiunge: «La fotografia fa l’effetto d’invecchiare».
Tuttavia in casa Toscanelli si aveva assai a che fare con i ritratti fotografici come si deduce da una seconda lettera di Elisa al padre: «Eccole i ritratti di Disderi. Per mezzo di Amari Emilia ne ha mandati sei. Ne ho ritenuto due per il mio album e le mando gli altri quattro. Confesso che quello del Marzocchini (fotografo livornese attivo fin dal 1843) e che costa tanto meno non mi sembra inferiore».
Ma torniamo a Un’escursione intorno al Monte Bianco. Il curatore ci dice che Elisa colta, sensibilissima e acuta, «con rara grazia brillava trattando or le cose gravi or le futili di questo mondo», e che attingeva «dal suo amore per le bellezze della natura tanta forza da sopportare i disagi di ogni maniera». Scrive Elisa: «Difficilmente può dirsi qual piacere sia, per chi lascia di un tratto le abitudini cittadine, il trovarsi in mezzo ai monti, il respirare la brezza mattutina, l’essere in mezzo a cose e persone nuove e sentire insolite forze per correre le avventure di un faticoso pellegrinaggio».
Elisa intraprende da sola il suo viaggio al Monte Bianco. Considera che, sì, viaggiare in compagnia, certo, «ma anche l’esser una donna sola ha i suoi vantaggi». Si sceglie a Courmayeur una guida. Racconta di aver provato con emozione il sentimento che dà la completa solitudine «sbalzata in un mondo tutto minerale spogliato di esseri viventi, e composto di aria, ghiaccio e pietra. Non vi era più né un filo d’erba né un insetto che ronzasse per aria, ma tutte le guglie del Monte Bianco che stavano lì da secoli, imponenti e maestose sfidando i tempi futuri nella loro augusta immobilità». Chiosa l’anonimo curatore: «se non è vana speranza, l’esempio di lei potrà giovare ad altre, che pur dotate di facoltà nobilissime, consumano una vita sbiadita, senza che il loro cuore palpiti dinanzi a quelli spettacoli».
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