Sarebbe dovuto iniziare fra tre giorni, il 4 marzo. Ora rischia di non tenersi prima del voto di novembre: il processo federale contro Donald Trump per il tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni del 2020 ha subito un’ulteriore battuta d’arresto a causa della Corte suprema, che ha accettato di decidere il caso sull’immunità dell’ex presidente. Il dibattimento è stato fissato per il 22 aprile, mentre la decisione potrebbe arrivare perfino a giugno. Accogliendo la richiesta del team legale del presidente i giudici gli hanno fatto un regalo che è difficile ritenere casuale o neutrale, assecondando quella che per ora è la principale strategia dei sui avvocati: rimandare, ritardare, bombardare di appelli tutti i procedimenti penali (quattro) che lo riguardano.

Il procuratore speciale Jack Smith – che ha incriminato Trump sia per il tentativo di restare alla Casa bianca ignorando l’esito del voto che per il furto dei documenti classificati ritrovati nella sua tenuta di Mar-a-Lago – aveva chiesto alla Corte suprema di non accettare la richiesta del tycoon, accettando implicitamente la sentenza della Corte d’appello di Washington alla quale si era inizialmente rivolto il team legale. Con la teoria secondo la quale Trump gode di immunità per tutti gli atti compiuti mentre era presidente, in assenza di una condanna a seguito di un processo di impeachment. «Non possiamo accettare la teoria di Trump per la quale un presidente ha un’autorità senza confini per commettere crimini, che neutralizzerebbe il controllo più importante sul potere esecutivo – il riconoscimento e l’implementazione dei risultati elettorali», avevano scritto all’unanimità i tre giudici, affermando inoltre che ora il tycoon è il «cittadino Trump», e non più il «presidente», e come tale sottoposto alla legge alla pari di tutti gli altri.
Nel complesso labirinto di processi e appelli che si allarga intorno a Donald Trump, quello che all’apparenza è un ulteriore bizantinismo – il passaggio alla Corte suprema – è in realtà un duro colpo alla possibilità di stabilire in modo definitivo e ufficiale le responsabilità del tentato golpe. Inferto da una supermaggioranza di giudici conservatori (sei a tre) dei quali tre nominati proprio da Trump.

La Corte suprema deciderà anche il caso sull’ineleggibilità del tycoon ai sensi del 14esimo emendamento, che vieta a chi è insorto contro il governo degli Stati uniti di occupare uffici pubblici. Ieri anche una giudice dell’Illinois, dopo il Colorado e il Maine, ha stabilito che Trump non può apparire sulle schede elettorali delle primarie perché «ha preso parte a un’insurrezione il 6 gennaio 2021», ma la sentenza è stata sospesa in attesa del previsto, e prevedibile, appello di Trump.

Nel frattempo, la procuratrice di Fulton County Fani Willis, che ha incriminato il tycoon per il tentativo di sovvertire il risultato elettorale in Georgia – dove aveva minacciato il segretario di stato Brad Raffensperger perché gli «trovasse» gli 11.000 voti che gli mancavano per vincere – rischia di vedersi strappare il caso per la love story non dichiarata con il suo vice nel processo. Se questo accadesse, anche le incriminazioni della Georgia rischiano di non arrivare a novembre. E a una giudice di nomina trumpiana, Aileen Cannon, della Florida, spetta a breve decidere le tempistiche sul caso dei documenti rubati.
L’unico processo ad avere una data chiara è quello per falsificazione dei registri contabili, a New York: inizierà il 25 marzo.