Il razzismo è viltà etica
Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos
Il razzismo non è xenofobia. Quest’ultima è la diffidenza, che può diventare ostilità, nei confronti dello straniero, quando non si è in grado di stabilire con lui una reale relazione di scambio o investire in una sua attuazione futura. Si esalta con i flussi migratori, quando essi superano le possibilità di una loro gestione adeguata.
È un sentimento difensivo che non si interroga sulle cause, segue la strada di allontanamento dalla realtà e complica a dismisura la gestione dei flussi.
Nel suo diventare ostilità sopravvive in negativo il desiderio dell’alterità, il cui capovolgimento è, tuttavia, pericoloso, soprattutto se c’è chi soffia sul fuoco.
Per arginare la xenofobia è importante l’esistenza di una società civile capace di elaborare l’aggressività, di trasformare il conflitto in sentimento di mancanza che fa uscire dall’autoreferenzialità. In questo modo l’incontro con l’altro può aver la meglio sulle sue difficoltà contingenti.
Il razzismo ha il suo terreno di cultura nella decadenza di una società civile afflitta da una grave crisi di tutti i rapporti di scambio nel suo interno.
La condizione psichica da cui nasce non è una reazione ai flussi migratori (le sue forme più virulente si sviluppano in loro assenza) anche se l’incancrenirsi della xenofobia la favorisce. È un rigetto radicale della relazione con la differenza e della parte desiderante di sé che la cerca.
Chi se ne ammala è reso estraneo ai propri sentimenti. Il diventare stranieri a se stessi crea un’immagine disumana, mostruosa del proprio mondo interno che è proiettata in ogni forma di diversità esterna, sufficientemente inerme per poterla distruggere.
Se nella xenofobia il desiderio è trasformato in ostilità, nel razzismo è pervertito in bisogno compulsivo di scarica delle emozioni. L’altro è privato dell’interesse erotico, affettivo e mentale che gli può essere rivolto e ridotto in una condizione di indesiderabile alienità animale, impostagli come congenita, costituzionale. È usato come strumento per sbarazzarsi delle proprie tensioni psicocorporee o percepito come fonte di queste tensioni di cui liberarsi.
Nella sua forma conclamata, il razzismo, una forma di esistenza chiusa in se stessa, indifferenziata e indifferente, è l’espressione sociale più evidente del narcisismo di morte: il blocco dell’estroversione naturale della soggettività, il delirio silenzioso, sottostante all’esaltazione della purezza delle proprie origini, di una vita isolata dal mondo reale.
Banale e mortifera, quella del razzista è soprattutto una vita eticamente «vile».
La sofferenza psichica non è viltà etica, anche quando è usata in modo difensivo o è associata dalla trasformazione del proprio desiderio in una ricerca affannosa di effetti eccitanti (antidepressivi) e calmanti (ansiolitici) che, combinandosi, imitano il piacere erotico.
Quando la domanda di cura persiste (anche in forme fuorvianti), si è infelici ma non vili. La viltà diventa imperativa tutte le volte che si lucra della propria malattia.
Alla domanda di cura, uccisa dalla morte del desiderio, si sostituisce la volontà di potere, la riduzione dell’altro a manichino manipolabile a proprio piacimento.
Il razzista è necrofilo, è un agente della morte psichica (sua e degli altri), l’identificazione con essa lo esalta e lo eccita.
La vita è coraggio che può venire meno quando si ha paura di uccidere ciò che si ama o di essere uccisi da esso. Si è nello spazio tragico in cui la Polis resta viva. La morte che uccide la vita è, invece, vile. Porta l’uomo fuori dalla dimensione tragica, nell’hubris assoluta.
Questa hubris è un crimine contro l’umanità che non si prescrive.
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