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Il presidente della Cei Matteo Zuppi: «Costruire dialogo, non risposta militare»

Il presidente della Cei Matteo Zuppi: «Costruire dialogo, non risposta militare»La grande manifestazione per la pace del 20 marzo 2022 a Berlino – Ap

Il limite ignoto «È vero, c’è la legittima difesa. Ma dov’è il suo limite? E quindi qual è il limite degli aiuti militari? Questa è la domanda che dobbiamo porci, e la risposta è complessa»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 24 febbraio 2023

In quest’ultimo anno il mondo cattolico ha rappresentato uno spezzone importante del movimento per la pace, sabato scorso a Bologna è stato rilanciato l’appello di oltre cinquanta associazioni e movimenti cattolici per chiedere ai governi italiani – finora senza successo – di aderire al Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari e anche oggi molti cattolici sono in piazza a manifestare contro la guerra con quello che  resta della sinistra pacifista. Ne abbiamo parlato con il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana.

Matteo Zuppi

Dopo un anno di guerra non si parla più di negoziato ma solo di impegno per la vittoria. Siamo in un vicolo cieco?

È veramente pericoloso non investire più nella ricerca della pace. Nei primi mesi di conflitto ci sono stati alcuni tentativi di incontro fra le delegazioni di Russia e Ucraina, ma la via del dialogo è stata interpretata da molti come un favore all’uno o all’altro. Invece non è così. La guerra è una sconfitta per tutti. Il dialogo è l’unica strada per un cessate il fuoco, per interrompere l’escalation, impedire che ci siano ancora morti e distruzioni e alla fine arrivare a una composizione diplomatica del conflitto. Questo non è massimalismo pacifista. È buon senso!

Come si può costruire questo dialogo?

Il dialogo non nasce da solo, va preparato, ha bisogno di basi da cui partire, ci vuole il coinvolgimento di tutti gli attori, anche l’Europa dovrebbe fare la propria parte. Vale ancora quello che disse papa Francesco all’Angelus del 2 ottobre: a Putin chiese di «fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte», a Zelensky di «essere aperto a serie proposte di pace» e ai governi di «non lasciarsi coinvolgere in pericolose escalation» ma fare ricorso «a tutti gli strumenti diplomatici, anche quelli finora non utilizzati, per porre fine questa immane tragedia». Voglio rilanciare questo appello, finora inascoltato. Possiamo contare anche su alleati impensabili.

Quali «alleati impensabili»?

L’ex segretario di Stato Usa Kissinger che, di fronte al rischio nucleare, ha invitato ad avviare subito un dialogo «esplorativo» con Putin, anche se il presidente russo non ci piace. Io credo che sia necessario mettere insieme i tanti che possono porre le condizioni per avviare un dialogo, a cominciare da Usa e Cina. Questo non significa accettare lo status quo o allearsi con una delle parti, ma dire: cerchiamo un’altra soluzione, non quella militare. Finora però l’unica risposta della comunità internazionale, Italia compresa, sembra quella della fornitura di armi all’Ucraina. Così si aiuta la pace o si favorisce l’escalation? Il problema è che se c’è solo quello, allora è davvero pericoloso. È vero, c’è la legittima difesa. Ma dov’è il suo limite? E quindi qual è il limite degli aiuti militari? Questa è la domanda che dobbiamo porci, e la risposta è complessa.

Sabato scorso a Bologna lei ha ribadito che in questa guerra non è tutto uguale, che c’è una vittima e un occupante, ma che, contemporaneamente alla legittima difesa, bisogna fare uno «sforzo gigantesco» per la pace. Mi pare che questo sforzo manchi.

Continuo ad augurarmi che vengano percorse tutte le vie, anche quelle più insolite, per trovare un punto di incontro. Tenendo presente la storia del conflitto, che spesso dimentichiamo. La guerra non nasce il 24 febbraio 2022, ha origini antiche, ma ci sono anche eventi più recenti di cui tener conto. Penso al fallimento degli accordi di Minsk e al fatto che nel Donbass dal 2014 ci sono ininterrotte violenze, cosiddette a bassa intensità, che non possono mai essere accettate, perché facilmente cambiano intensità e diventano altro. Per avviare il dialogo bisogna sforzarsi di capire anche la logica della violenza, che si nutre di ragioni, da una parte e dall’altra. Questo non significa giustificarle, né metterle sullo stesso piano: la Russia le sue ragioni le ha perse appena ha invaso l’Ucraina e iniziato la guerra. Ma per risolvere il conflitto, bisogna conoscerle e immaginare delle soluzioni a partire da lì. Tutto questo comporta il coinvolgimento della comunità internazionale, ma anche una spinta dal basso degli «artigiani di pace», come li chiama il papa. Forse facciamo tutti un po’ troppo poco, c’è un’assuefazione ai bollettini di guerra.

La Chiesa italiana ha promosso grandi mobilitazioni su molte tematiche. Perché non lanciare ora una “chiamata alla pace” rivolta a tutti i cattolici?

Molte diocesi sono coinvolte nelle manifestazioni per la pace. E la Cei ha aderito a un’iniziativa promossa dal Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa: il 10 marzo sarà una giornata di preghiera per le vittime della guerra e per la pace.

È stato rilanciato l’appello delle associazioni cattoliche al governo perché l’Italia aderisca al Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari. È successo qualcosa?

In realtà lo avevamo chiesto anche ai precedenti governi, di altri colori. Il nucleare è una minaccia più vicina di quanto sembri, non è più un’ipotesi assurda. In questa situazione, ci possono essere due reazioni: non rendersi conto di quello che sta accadendo, oppure aver paura. La paura può diventare una buona consigliera, se si trasforma in consapevolezza, perché qui c’è davvero il rischio che salti tutto. A maggior ragione bisogna chiedere agli Stati politiche di disarmo, non di riarmo.

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