Commenti

Il potere logora chi ce l’aveva, è ora di nuovi leader

Kamala Harris fa il porta a porta a Reading, Pennsylvania - foto ApKamala Harris fa il porta a porta a Reading, Pennsylvania – Ap

I democratici C’è una questione di leadership, che si apre adesso, e una questione programmatica, un indirizzo che caratterizzi il partito come forza di opposizione a un presidente che la stessa Harris ha più volte definito di stampo “fascista”

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 7 novembre 2024

Durerà “solo” quattro anni la presidenza Trump, dal momento che l’appena eletto 47mo presidente degli Stati Uniti non potrà correre per un terzo mandato. Magra consolazione, si dirà, ma è pur sempre un dato politico non trascurabile, se si tiene conto che nel 2028 la rielezione di Trump sarebbe scontata, alla luce dell’esito del voto. Il dopo Trump è tutto da costruire e questo lascia uno spiraglio a una rivincita dei dem.

Peraltro, chi si candiderà dopo di lui non è neppure nel regno delle ipotesi, avendo fatto terra bruciata intorno a sé nel Partito repubblicano ed essendone diventato il padrone assoluto. Sarà lui a decidere, solo lui, quando vorrà lui, chi sarà il suo erede. Potrebbe perfino mettere mano alla costituzione per diventare presidente a vita. Oppure potrebbe cambiarla per consentire a uno “straniero” come Elon Musk di candidarsi lui Casa Bianca. Scenari lunari? Nel Trumpworld l’impensabile va preso in seria considerazione.

Il paesaggio politico che si spalanca il 6 novembre 2024 è, per i democratici, degno del film The Day After. Eppure i margini temporali per preparare una rimonta ci sono, non solo pensando alle prossime presidenziali 2028 – senza più Trump – ma innanzitutto alle elezioni di medio termine, nel 2026, che, come sempre, saranno un test sia per il partito del presidente sia per l’opposizione. I repubblicani potrebbero ulteriormente rafforzare le loro posizioni di maggioranza nei due rami del Congresso, come, al contrario, potrebbero vedersele ridotte, se avranno di fronte un Partito democratico tornato in piedi e pronto di nuovo a correre, dopo essere stato investito dalla valanga di Trump.

Sarà importante che l’inevitabile resa dei conti già in corso non dia luogo a una nuova frammentazione del partito, che pure aveva ritrovato una sua unità sia sotto la presidenza Biden sia a sostegno della candidatura di Kamala Harris.

C’è una questione di leadership, che si apre adesso, e una questione programmatica, un indirizzo che caratterizzi il partito come forza di opposizione a un presidente che la stessa Harris ha più volte definito di stampo “fascista”. Non sarà una normale opposizione, il regime trumpista metterà duramente alla prova ogni forma di contestazione, parlamentare, politica, civica, sindacale. Occorrerà una forza politica robusta per contrastare l’ondata di misure autoritarie e vendicative promessa dal nuovo presidente. È il partito di Kamala Harris, questa forza politica?

L’analisi del voto fornirà dati preziosi per capire fino a che punto, dove e come si è andata disgregando la coalizione di organizzazioni sociali e di comunità che hanno tradizionalmente costituito la base elettorale del Partito democratico e come può essere ricostruita la cosiddetta “grande tenda democratica” per entrare nella nuova fase di scontro.

Ci vorranno nuovi leader. Barack Obama ha rappresentato un’eccezione in un gruppo dirigente di settantenne e ottantenni che controlla il Partito democratico da un paio di decenni, esponenti come i Clinton, Biden, Schumer, Pelosi, Kerry ma anche Sanders, seppure in posizione sempre critica. Il tappo generazionale ha impedito a Kamala Harris di candidarsi almeno a inizio anno, e non solo un centinaio di giorni prima del 5 novembre, contro un avversario che è in campagna elettorale permanente dacché è sceso nell’arena politica nel 2015.

Anzi, sarebbe stato logico, non solo opportuno, che Joe Biden avesse rinunciato a un secondo mandato, aprendo la strada a vere e proprie primarie per la sua successione. Adesso rischia di aprirsi una caotica corsa alla leadership tra personaggi che si sarebbero potuti confrontare nel tragitto ordinato delle primarie: governatori come Gavin Newsom della California, Gretchen Whitmer del Michigan, Josh Shapiro della Pennsylvania, J. B. Pritzker dell’Illinois, ministri come Pete Buttigieg. Personalità di rilievo, che non vedi nel campo repubblicano, dove regna la mediocrità intorno al capo supremo.

Evidentemente dotato di antenne logorate, anche dal potere, il Partito democratico non aveva messo in conto una sconfitta di questa portata, non aveva dato il peso che meritava ai voltafaccia di importanti organizzazioni sindacali e al tiepido appoggio di altre, non aveva intercettato il distacco di pezzi importanti del suo elettorato tradizionale. La perdita di oltre quindici milioni di voti (popular vote) rispetto a quelli ottenuti da Joe Biden nel 2020 è una voragine politica a mala pena compensata dalla perdita di oltre due milioni di voti da parte di Trump rispetto alla sua performance nel 2020. Solo una reazione forte e immediata potrà consentire al Partito democratico di evitare che si aprano altre voragini, sempre più grandi, in cui rischiare di finirci dentro per sempre.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento